Di questo parliamo quando parliamo d'amore
...di feroci certezze e di teneri dubbi
di inattese carezze, di improbabili sogni...
23 agosto 2006, sera inoltrata. Siedo a un tavolino del Klub Rura di Wroclaw, ad una cinquantina di interminabili chilometri da Swidnica, la cittadina in cui mi trovo a vivere da qualche mese. Di fronte a me un paio di amici polacchi che hanno deciso che per il mio trentacinquesimo compleanno avrei dovuto necessariamente ingerire un congruo quantitativo di birra. Sul palco del locale il Tadeusz Nestorowicz Sekstet, che il congruo quantitativo di birra deve averlo già di gran lunga superato, cesella deliziose atmosfere vintage, con un affiatamento e una padronanza che non sembrano risentire del tasso alcolico. Nell’intervallo, mentre tento di dirigermi barcollando verso il bagno, mi ritrovo davanti Tadeusz, il trombettista, un uomo sui cinquanta contenuto a fatica dalla cintura stretta alla vita, con un viso che ispira simpatia, disegnato intorno a due baffi di una certa importanza, e, non ultimo, un jazzista di prim’ordine per tecnica, colore e inventiva. Mescolando l’inglese a qualche parola di polacco gli dico qualcosa che in questo momento non ricordo ma dalla quale lui deve rimanere molto colpito, tanto che cominciamo a parlare a ruota libera di Chopin, di Miles Davis e forse anche del Papa. Tira fuori dalla tasca una foto che lo ritrae mentre suona la tromba travestito da pecora. “Vedi cosa bisogna fare per arrivare alla fine del mese?”, mi dice, “Te lo immagini Chopin costretto a suonare i notturni travestito da pecora? Al tempo del comunismo certe cose magari non andavano, ma c’era rispetto per gli artisti”. Gli dico che da noi non è che vada meglio e che l’unica cultura tutelata è quella enogastronomica, perchè siamo nati per soffriggere e il lardo di colonnata trova più spazio dell’arte. Mi chiede se la mia musica è tipo Eros Ramazzotti. Mi sento di rassicurarlo. Mi mostra orgoglioso un’altra sua foto spiegazzata: questa volta è in abiti borghesi, insieme alle tre figlie che sorridono e lo tengono abbracciato come un grosso orsacchiotto in mezzo a un prato. Il pianista del gruppo si avvicina con tre pinte di birra, facendosi largo tra gli avventori. Siamo già amici. Ci lasciamo con l’intenzione di rivederci per qualche altra birra e magari anche per la musica. Il giorno dopo io e il mio cerchio alla testa ci troviamo distesi su una panchina nel rynek, la piazza del mercato, a rubare una carezza di sole all’estate dell’est. A mezzogiorno in punto dalla torre del municipio una tromba gonfia l’aria di una melodia malinconica, verso i quattro punti cardinali. Passano pochi minuti e dal portone del municipio vedo uscire proprio Tadeusz, trafelato come chi abbia appena salito e sceso diverse centinaia di gradini. Mi riconosce e sembra quasi volersi giustificare. “Te lo immagini Chopin a suonare una mazurka ogni santo giorno a quest’ora dalla torre di un municipio?”. Gli domando se troverebbe ugualmente degradante suonare per uno scrittore italiano che ha una mezza idea di registrare un disco come si faceva negli Anni Settanta o giù di lì, dopo l’Era Glaciale e prima dell’altrettanto gelida Era Digitale. Mi chiede di nuovo se la mia musica è tipo Eros Ramazzotti. Evidentemente è una cosa che gli sta a cuore sapere con certezza. Ancora una volta riesco a rassicurarlo. A casa sua, dopo un aperitivo a base di una specie di salsiccia ricavata da non so quale povero animale, mi siedo al pianoforte e gli accenno “Interno notte”. Mentre suono lui inizia a ricamare delle armoniche con la tromba. Quella sera siamo già da Wojtek a bere birra e suonare, mentre dalle pareti sottili dell’architettura socialista trasudano le voci e i rumori di altre stanze, di altre vite. “Summertime blue” è nato così, dopo qualche settimana di musica e birra, in una jam session di otto ore in una fattoria sperduta nella campagna ai margini di Olesnica, in presa diretta, senza sovraincisioni, tagli o campionamenti, registrato e mixato in analogico. Un disco in carne ed ossa in cui ci siamo divertiti a sporcare con i colori dello swing, del blues, del rock e di ogni altra cosa che ci è passata per la mente la cosiddetta canzone d’autore (dicesi “canzone d’autore”, secondo la mia personale definizione, quel genere di canzone del cui testo l’autore non è tenuto a vergognarsi nè in pubblico nè in privato). Un disco imperfetto ma vero, come la vita