martedì 20 dicembre 2011
mercoledì 14 dicembre 2011
Anche Firenze ha un cuore oscuro
Oggi Firenze si e' scoperta incredula di fronte alla tragedia consumatesi ieri a piazza Dalmazia e a San Lorenzo. "Non non siamo cosi'", "e' stato il gesto di un folle" i commenti piu' frequenti e forse troppo tranquillizzante. Senz'altro solo un folle poteva fare quello che ieri e' stato fatto, ma un folle che ha trovato terreno fertile nelle realta' che anche nella nostra citta' propagandano odio e violenza, nonche' nel clima sociale, politico e mediatico che continua a mettere in competizione la sicurezza con i diritti, l'appartenenza con l'accoglienza. L'emergenza nazionale che questo blog da anni denuncia continua a crescere e ha fatto, speriamo solo per un giorno, di Firenze la propria capitale. Di seguito la lettera alla comunita' Senegalese, a cui Beffatotale virtualmente si stringe, dallo Scoutismo fiorentino. L'appuntamento e' per tutti alla manifestazione di Sabato 17.
Alla Comunita' Senegalese di Firenze
Alla Comunita' Senegalese di Firenze
Al presidente dell'Associazione Senegalese Pape Diaw
Gli scout fiorentini in questo giorno di lutto vogliono essere vicini al dolore e allo sgomento di tutta la comunita' sengalese, in particolare degli amici e dei familiari di Samb Modou e di Diop Mor, e a Moustapha Dieng, Sougou Mor e Mbenghe Cheike, ancora ricoverati in ospedale per le gravissime conseguenze delle ferite ricevute.
I tragici fatti di ieri devono interrogare tutta la nostra citta', soprattutto chi come la nostra associazione si occupa di educazione, per ricordarci che l'odio e l'intolleranza ancora avvelenano cosi' profondamente la nostra comunita', sostenuti dal persistente clima sociale, politico e mediatico che continua a mettere in competizione la sicurezza con i diritti, l'appartenenza con l'accoglienza.
Come recita il nostro Patto Associativo, "ci impegniamo a rifiutare decisamente, nel rispetto delle radici storiche e delle scelte democratiche e antifasciste espresse nella Costituzione del nostro Paese, tutte le forme di violenza, palesi ed occulte, che hanno lo scopo di uccidere la libertà e di instaurare l'autoritarismo e il totalitarismo a tutti i livelli, di imporre il diritto del forte sul debole, di dare spazio alle discriminazioni razziali".
Ci impegnamo inoltre a portare avanti con convinzione ancora maggiore la nostra azione educativa per una proposta che "superi le differenze di razza, nazionalità e religione, imparando ad essere cittadini del mondo e operatori di pace, in spirito di evangelica nonviolenza, affinché il dialogo ed il confronto con ciò che è diverso da noi diventi forza promotrice di fratellanza universale", mai motivo di odio e di violenza.
AGESCI - Comitati di Zona Firenze Ovest e Firenze Est
giovedì 1 dicembre 2011
100000
Sebbene Beffatotale sia in semi-sonno, oggi sono state superate le 100000 visite... grazie a tutti!
Non mi svegliate ve ne prego
ma lasciate che io dorma questo sonno,
c'è ancora tempo per il giorno
ma lasciate che io dorma questo sonno,
c'è ancora tempo per il giorno
quando gli occhi si imbevono di pianto,
i miei occhi... di pianto.venerdì 25 novembre 2011
Nel Sangue e nel Sudore
I muratori cantano,
cantando sembra più facile.
Ma tirar su un edificio
non è cantare una canzone,
è una faccenda
molto più seria.
Il cuore dei muratori
è come una piazza in festa;
c'è un vocio,
canzoni
e risa.
Ma un cantiere non è una piazza in festa:
c'è polvere e terra,
fango e neve.
Spesso le mani sanguinano,
il pane non sempre è fresco,
al posto del tè c'è acqua,
qualche volta manca lo zucchero,
non tutti qui sono eroi,
e gli amici non sempre
sono fedeli.
Tirar su un edificio
non è cantare una canzone.
Ma i muratori
son gente cocciuta.
E l'edificio vien su,
vien su,
sempre più in alto
e più in alto
s'arrampica.
Alla fine del primo piano
stanno già vasi di fiori,
e sopra il tetto del garage
gli uccelli sulle ali già portano il sole.
In ogni trave c'è un battito di cuore,
in ogni pietra.
cantando sembra più facile.
Ma tirar su un edificio
non è cantare una canzone,
è una faccenda
molto più seria.
Il cuore dei muratori
è come una piazza in festa;
c'è un vocio,
canzoni
e risa.
Ma un cantiere non è una piazza in festa:
c'è polvere e terra,
fango e neve.
Spesso le mani sanguinano,
il pane non sempre è fresco,
al posto del tè c'è acqua,
qualche volta manca lo zucchero,
non tutti qui sono eroi,
e gli amici non sempre
sono fedeli.
Tirar su un edificio
non è cantare una canzone.
Ma i muratori
son gente cocciuta.
E l'edificio vien su,
vien su,
sempre più in alto
e più in alto
s'arrampica.
Alla fine del primo piano
stanno già vasi di fiori,
e sopra il tetto del garage
gli uccelli sulle ali già portano il sole.
In ogni trave c'è un battito di cuore,
in ogni pietra.
E l'edificio vien su,
magnifico,
cresce
nel sangue e nel sudore.
cresce
nel sangue e nel sudore.
Nazim Hikmet, 1955
domenica 13 novembre 2011
Ma siamo sicuri sicuri?
[...] In Italia, data la maggiore influenza avuta dalla cultura marxista e la quasi assenza di una cultura liberale, si è protratta più a lungo, in una parte dell' opinione pubblica e della classe dirigente, la priorità data alla rivendicazione ideale, su basi di istanze etiche, rispetto alla rivendicazione pragmatica, fondata su ciò che può essere ottenuto, anche con durezza ma in modo sostenibile, cioè nel vincolo della competitività.
Questo arcaico stile di rivendicazione, che finisce spesso per fare il danno degli interessi tutelati, è un grosso ostacolo alle riforme. Ma può venire superato. L'abbiamo visto di recente con le due importanti riforme dovute a Mariastella Gelmini e a Sergio Marchionne. Grazie alla loro determinazione, verrà un po' ridotto l'handicap dell'Italia nel formare studenti, nel fare ricerca, nel fabbricare automobili. [...]
[...] Soprattutto, di fronte al magnetismo comunicativo del premier, molti credono che l'Italia — oltre ad avere, anche per merito del governo, riportato indubbiamente meno danni di altri Paesi dalla crisi finanziaria — davvero non abbia gravi problemi strutturali irrisolti, anche per insufficienze di questo e dei precedenti governi. [...]
Mario Monti, in un editoriale del Corriere del 2 Gennaio 2011
martedì 8 novembre 2011
Forza Viola!
Nell'attesa della caduta di Berlusconi, intanto ci siamo liberati di Sinisa... finalmente dopo un anno e mezzo di sciopero del tifo dopo l'ingaggio di Sinisa Mihajlovic da parte della Fiorentina (per tutti i motivi spiegati qua) possiamo finalmente su questo blog ricominciare a tifare viola. Purtroppo anche l'aspetto tecnico ha lasciato a desiderare, e il tecnico serbo lascia una squadra senza carattere (ma non ora quello duro?), senza gioco, senza tifosi, senza obiettivi. Vediamo se Delio riuscira' a riportare entusiasmo, bel gioco e risultati...
lunedì 31 ottobre 2011
venerdì 28 ottobre 2011
Il bianco
... non fa per te, non fa piu' per me ...
Dall'album Ancora un ballo di Maurizio Geri, cantata con Ginamaria Tersta e dedicata alla figura del clown bianco.
Pubblicato da beffatotale alle 11:50 0 commenti
Categorie: citazioni, clown, geri, gianmaria testa, musica
venerdì 14 ottobre 2011
99%
Aumenta il numero di persone accampate in via Nazionale a Roma sui gradini del palazzo delle Esposizioni a pochi metri dalla sede della Banca d'Italia...
Pubblicato da beffatotale alle 10:34 0 commenti
Categorie: economia, indignati, rivoluzione, roma
sabato 1 ottobre 2011
La Tempesta
... un vento poi soffiera' dentro le nostre vele
qual e' la rotta giusta solo il Signore lo sa,
ma se la vita e' Tempesta, Tempesta allora sara'...
ma se la vita e' Tempesta, Tempesta allora sara'...
giovedì 29 settembre 2011
Gli oroscopi non ci prendono piu'
«Gli oroscopi non valgono più niente. Oggi non si nasce più quando si deve nascere, ma quando lo decide il medico. Infatti nessun bambino nasce più di notte né durante il week end, ma per cesareo dal martedì mattina al giovedì sera. Uno non nasce sotto il quadro astrale che hanno scelto per lui le stelle, ma sotto quello scelto dal ginecologo. Ecco perché gli oroscopi non ci prendono più, è tutto falsato»
Onorevole Melania De Nichilo Rizzoli, medico internista e deputata PDL, nel suo intervento di ieri alla Camera
Onorevole Melania De Nichilo Rizzoli, medico internista e deputata PDL, nel suo intervento di ieri alla Camera
Pubblicato da beffatotale alle 17:10 0 commenti
Categorie: astro, delirio, melania rizzoli, oroscopo, pdl
martedì 13 settembre 2011
Perche' l'Italia diventi un paese civile
Testo stenografico dell’arringa di Piero Calamandrei pronunciata il 30 marzo 1956 dinanzi al Tribunale penale di Palermo nel corso del processo contro Danilo Dolci e altri coimputati per il digiuno sulla spiaggia di Trappeto e lo "sciopero alla rovescia" sulla trazzera vecchia di Partinico: Danilo Dolci era stato infatti arrestato il 2 febbraio 1956 per aver promosso e capeggiato, insieme con alcuni suoi compagni, due manifestazioni di protesta contro le autorità che non avevano provveduto a far rispettare le leggi e a dar lavoro ai disoccupati della zona. Dopo un digiuno per protestare contro la pesca di frodo che affamava i piccoli pescatori di Trappeto, Danilo organizza uno "sciopero alla rovescia", convincendo diverse centinaia di disoccupati a iniziare lavori di sterramento e di assestamento in una vecchia strada comunale abbandonata, la "trazzera vecchia", nei pressi di Partinico, allo scopo di dimostrare che non mancavano né la volontà di lavorare né opere socialmente utili da intraprendere in beneficio della comunità. I principali capi di accusa riguardavano la violazione degli articoli 341 (oltraggio a pubblico ufficiale), 415 (istigazione a disobbedire alle leggi), 633 (invasione di terreni) del Codice penale.
Qui disponibile l'arriga interpretata da Bertinotti per uno spettacolo teatrale su Danilo.
Signori Giudici.
Questo processo avrebbe potuto concludersi, meglio che con la parola mia, con la parola di un giovane. Le parole dei giovani sono parole di speranza, preannunziatrici dell'avvenire: e questo è un processo che preannuncia l'avvenire.
Avrebbe dovuto parlare prima l'imputato, Danilo Dolci che è un giovane; e dopo di lui,non per difenderlo ma per ringraziarlo, il più giovane dei suoi difensori, l'avvocato Antonino Sorgi.
Se si fosse fatto così questo processo sarebbe finito da cinque giorni; e da cinque giorni Danilo Dolci e gli altri imputati, i cosiddetti "imputati", sarebbero tornati a Partinico, invece di tornarvi, come vi torneranno, soltanto stasera, dopo l'assoluzione, a far Pasqua con le loro famiglie.
Ma forse, per la risonanza nazionale e sociale di questo processo, è stato meglio che sia avvenuto così: che abbiano parlato anche i vecchi e meno giovani; e non brevemente.
E così l'onore e la responsabilità di chiudere la discussione e di rivolgervi, signori giudici, l'ultima preghiera che vi accompagnerà in camera di consiglio, sono toccati a me; non solo per la mia età, ma forse anche perché io sono qui, unico tra i difensori, soltanto un avvocato civilista, cioè un avvocato che non ha esperienza professionale di processi penali.
Questo, infatti, non è un processo penale: o almeno non è quello che i profani si immaginano, quando parlano di un processo penale.
Nel processo penale il pubblico concentra i suoi sguardi sul banco degli imputati, perché crede di vedere in quell'uomo, anche se innocente, il reo, l'autore del delitto: l'uomo che ha ripudiato la società, che è una minaccia per la convivenza sociale.
L'imputato è solo, inconfondibile, diverso agli occhi del pubblico da tutti gli altri uomini, isolato dentro la sua gabbia e, anche quando la gabbia non c'è, isolato dentro la sua colpa.
Ma questo non è un processo penale: dov'è il reo, il delinquente, il criminale? Dov'è il delitto, in che consiste il delitto, chi lo ha commesso?
Angosciose domande: alle quali forse neanche il P.M., nella sua misurata requisitoria che abbiamo ammirato non tanto per quello che ha detto quanto per quello che ha lasciato intendere senza dirlo, saprebbe in cuor suo dare una tranquillante risposta.
Non a caso qui il banco degli imputati e quello dei difensori sono così vicini, fino a parere un banco solo. Dove sono gli imputati e dove i difensori? Qui, in realtà, o siamo tutti difensori o siamo tutti imputati.
In questa aula, da qualunque parte ci volgiamo, nei vari seggi di essa, non ci sono altri che uomini che si trovano qui, perché hanno voluto e vogliono prestare ossequio alla legge: osservarla, servirla.
La sigla è quasi si direbbe il vertice magico di questo processo è in quella formula laconica intarsiata con caratteri antichi sulla cattedra ove siedono i giudici. Non è la solita frase che in altre aule si legge scritta sul muro al disopra delle teste di giudici, quella frase che suscita tante speranze ma anche tante perplessità: "La legge uguale per tutti". No: il motto di questa aula è molto più laconico, misterioso e conciso come la risposta di un oracolo: "La legge".
Questo è l'imperativo categorico che ci tiene tutti qui incatenati dallo stesso dovere, appassionati dalla stessa passione: "de legibus".
Il Tribunale che siede è per definizione l'organo che, amministrando giustizia, fa osservare la legge.Il P.M., che siede al lato del collegio giudicante, è il rappresentante della legge.Noi avvocati siamo qui, al nostro posto, per difendere la legge. Dietro a noi, a fianco degli imputati e sulle porte, i commissari e gli agenti di polizia sono gli esecutori della legge.
E poi ci sono questi imputati: imputati di che? Mah... di nient'altro che di aver voluto anch'essi servire la legge: di aver voluto soffrire la fame e lavorare gratuitamente allo scopo di ricordare agli immemorì il dovere di servire la legge.
Ma allora vuol dire che siamo tutti qui per lo stesso scopo: quale è il punto del nostro dissidio, quale è il tema del nostro dibattito? Perché noi avvocati stiamo a questo banco degli imputati dietro a noi e i giudici nei loro seggi più alti? di che stiamo noi discutendo?
In verità io non riesco a riconoscere su queste facce di imputati, così tranquille e serene, le tristi impronte della delinquenza; né riesco a scoprire nelle umane facce dei carabinieri che stanno accanto a loro la fredda insensibilità dell'aguzzino. Io so che essi, quando mettono le manette a questi imputati, si sentono in fondo al cuore umiliati e addolorati di questo crudo cerimoniale, che pure hanno il dovere di compiere: quando la mattina gli imputati entrano in quest'aula incatenati, come prescrive il regolamento di polizia, non sono essi che provano rammarico e vergogna per quelle catene. Ho visto con i miei occhi che, nonostante quei polsi serrati nelle manette, le loro facce rimangono serene e sorridenti; ma un'ombra di mestizia traspare sui volti di chi li accompagna.
No no, il dissidio non è qui, in questa aula: il dissidio è più lontano e più alto. Sarebbe follia pensare che Danilo abbia potuto indirizzare agli agenti che lo arrestarono, fatti della stessa carne di questi che oggi lo accompagnano, l'epiteto di " assassini ". Danilo non parlava e non parla a loro. Gli assassini ci sono, ma sono fuori di qui, sono altrove: si tratta di crudeltà più inveterate, di tirannie secolari, più radicate e più potenti; e più irraggiungibili.
Di quello che è avvenuto, signori del Tribunale, non si deve dare colpa alla polizia, la quale è soltanto una esecutrice di ordini che vengono dall'alto. In quanto a me, vi dirò anzi che ho sentito dire che io dovrei essere debitore, verso qualcuno degli agenti che hanno deposto in questo processo, di speciali ragioni di gratitudine. Dai resoconti dati dalla stampa su una delle prime udienze, alla quale io non ho potuto partecipare, ho appreso che io dovrei ringraziare quel funzionario di polizia che oggi è commissario a Partinico, il dottore Lo Corte, del trattamento di favore che egli mi avrebbe usato a Firenze, nel periodo in cui egli apparteneva alla polizia della Repubblica di Salò: pare che nella sua deposizione egli abbia detto che mi trattò con speciale riguardo perché, quando venne al mio studio per arrestarmi, arrivò un quarto d'ora dopo che io ero uscito e così lasciò ineseguito il suo mandato. In verità io non mi ricordo di lui: e non so se devo essere grato a lui per essere arrivato un quarto d'ora dopo o a me stesso per essere uscito un quarto d'ora prima. Ma in ogni modo sono anche disposto ad essergli riconoscente: non sono queste vicende personali le cose che contano in questo processo.
Quello che conta è un'altra cosa: conoscere il perché umano e sociale di questo processo, collocarlo nel nostro tempo; vederlo, come tu ben dicevi, o amico Sorgi, storicamente, in questo periodo di vita sociale e in questo paese.
Io ho ammirato, lo ripeto, la misura con cui ha parlato il P.M.; ma su due delle premesse (oltreché, ben s'intende, su tutte le sue conclusioni) non posso essere d'accordo: e cioè quando egli ha detto che questa è " una comunissima vicenda giudiziaria ", e quando ha detto che per deciderla il Tribunale dovrà tener conto della legge ma non delle "correnti di pensiero" che i testimoni hanno portato in questa aula.
Dico, con tutto rispetto, che queste due affermazioni mi sembrano due grossi errori non soltanto sociali, ma anche specificamente giuridici. Non sono d'accordo sulla prima premessa. Questo non è un processo " comunissimo ": è un processo eccezionale, superlativamente straordinario, assurdo. Questo non è neanche un processo: è un apologo.
Un processo in cui si vorrebbe condannare gente onesta per il delitto di avere osservato la legge, anzi per il delitto di aver preannunciato e proclamato di volere osservare la legge: arrestati e rinviati a giudizio sotto l'imputazione di volontaria osservanza della legge con l'aggravante della premeditazione!
Per renderci conto con distaccata comprensione storica della eccezionalità e assurdità di questo processo, bisogna cercare di immaginare come questa vicenda apparirà, di qui a 50 o a 100 anni, agli occhi di uno studioso di storia giudiziaria al quale possa per avventura venire in mente di ricercare nella polvere degli archivi gli incartamenti di questo processo, per riportare in luce storicamente, liberandolo dalle formule giuridiche, il significato umano e sociale di questa vicenda.
Quali apparirebbero agli occhi dello storico gli atti più significativi di questo processo?
La sua attenzione si fermerebbe prima di tutto su quella ordinanza del giudice istruttore, con la quale, per negare agli arrestati la libertà provvisoria, si è testualmente affermato la "spiccata capacità a delinquere del detto imputato": il " detto imputato ", per chi non lo sapesse, sarebbe Danilo Dolci.
Suppongo che il magistrato che scrisse questa frase non abbia immaginato, al momento in cui la scrisse, il senso di sgomento che in centinaia di migliaia di italiani questa frase ha suscitato, quando l'hanno letta riferita sui giornali: senso di sgomento per lui, non per Danilo Dolci.
Ma, insomma, questa frase è stata scritta; e tra cinquant'anni lo storico la potrà leggere e potrà dire a se stesso:-Ecco, ho avuto la mano felice: ho trovato un caso interessante, il processo di un gran delinquente, un caso tipico di "spiccata capacità a delinquere".
Ma che cosa ha fatto mai Danilo Dolci per dimostrare questa sua " spiccata capacità "?
La capacità a delinquere, per me avvocato civilista, ha due aspetti: uno giuridico e uno sociale. Sotto l'aspetto giuridico mi pare che essa sia la tendenza e la attitudine a violare il diritto altrui; sotto l'aspetto sociale mi pare sia la incapacità di intendere che la vita in società è fatta di solidarietà e di altruismo: che senza solidarietà e senza altruismo non vi è civiltà. Il delinquente è essenzialmente un infelice esiliato nel suo sfrenato egoismo, un solitario incapace di vivere in società.
Dunque lo storico che si metterà a sfogliare questo processo, quando saranno da lungo tempo caduti e dimenticati quegli articoli della legge di pubblica sicurezza e del codice penale di cui stiamo qui a discutere da una settimana (quegli articoli che già assomigliano a quei gusci vuoti che rimangono attaccati ai tronchi degli ulivi quando già ne è volato via l'insetto vivo), scorrerà attentamente gli incartamenti per ricercare le prove di questa "spiccata capacità a delinquere " che l'ordinanza istruttoria con tanta durezza preannuncia. E, senza perdersi in sottili acrobazie di dialettica giuridica, si domanderà umanamente: che cosa avevano fatto di male questi imputati? In che modo avevano offeso il diritto altrui; in che senso avevano offeso la solidarietà sociale e mancato al dovere civico di altruismo?
Lo storico arriverà a trovare documentati nel seguito del processo due "misfatti".
Io mi limito a leggere qualche passo di un solo documento: di un documento che è ancora nelle mie mani e che dà a questa mia difesa il carattere non solo di una testimonianza, ma anche, come ieri vi dicevo, di una complicità.
Quando alla fine dello scorso gennaio Danilo Dolci, dopo essere stato a Torino per consultarsi con i suoi amici sulle azioni che si proponeva di svolgere a Partinico, passò da Firenze nel viaggio di ritorno, venne al mio studio per consigliarsi anche con me come legale ed esser sicuro che quello che stava per fare entrasse perfettamente nei limiti delle leggi. Non mi trovò; e allora mi lasciò una copia del foglietto che in questo momento vi sto leggendo, con questa nota scritta di suo pugno: "Speravo di vederti e di avvisarti. Un saluto con affetto. Tuo Danilo". Quando tornai dopo due giorni, e lessi il foglietto, il quale conteneva, come ora vi dirò, il programma di quello che stava per succedere a Partinico, trovai che niente di quello che era preannunciato in tale programma poteva in qualsiasi modo andar contro alle leggi o ai regolamenti di polizia: e per questo mi guardai bene dall’avvertire Danilo Dolci, che intanto era ritornato a Partinico, di astenersi dal fare quello che si proponeva. Se in quello che ha fatto c’è qualche cosa di contrario alla legge, sono dunque responsabile anch’io di complicità e, e forse la mia responsabilità è più grave della sua, perché io dovrei avere quella conoscenza tecnica delle leggi che Danilo non ha.
Dunque, vi dicevo, in questo documento che sto per leggervi c’è la prova di due misfatti.
Il primo misfatto è quello che si proponevano di compiere lunedì 30 gennaio i pescatori di Trappeto.
Si legge testualmente in questa dichiarazione:
"abbiamo ripetutamente documentato alle Autorità direttamente responsabili e all'opinione pubblica, per anni e anni, la pesca fuori legge della zona, gravissimo danno a tutti noi e all’economia nazionale.
" E’ profondamente doloroso e offensivo constatare che lo Stato non sa far rispettare le sue leggi più elementari, più giustificate: i mezzi di informazione e di pressione normali in uno Stato civile, qui sono stati assolutamente inefficaci. Decisi a fare rispettare le leggi, promuoviamo un movimento che non si fermerà fino a quando il buon senso e l'onestà non avranno trionfato. Inizieremo lunedì, 30 gennaio, digiunando per 24 ore."
Seguono circa 300 firme tra loro sono anche numerosi vecchi e ragazzi con piena coscienza dell'azione.
Questo è dunque il primo misfatto. Le circostanze sono semplici e chiare. Una piccola popolazione di poveri pescatori vive alla meglio con la pesca del suo mare. Per legge, il tratto di mare più vicino alla costa è riservato alla pesca della popolazione rivierasca; i motopescherecci, devono tenersi al largo. Ma qui i motopescherecci, per vecchio sistema, si beffano sfrontatamente della legge; da tempo vengono a pescare nel mare vicino alla riva, predando il pesce che dovrebbe dar da vivere ai piccoli pescatori. Così i pescatori locali non hanno più da pescare; questa sistematica rapina dei motopescherecci appartenenti a grandi società organizzate e protette dalle autorità, condanna i piccoli pescatori a morire di fame. Ricorrono alle autorità; ma le autorità non provvedono. Protestano, ma le autorità non ascoltano. Il contrabbando continua: qualcuno pensa che le autorità siano d'accordo coi contrabbandieri; e che ci sia qualcuno in alto che partecipa agli utili del contrabbando.
Allora che cosa fanno i pescatori che da anni reclamano giustizia e non riescono ad averla da chi dovrebbe darla: si ribellano? Si mettono a tumultuare? Rubano? Commettono violenze?
Niente di tutto questo. Arriva Danilo in mezzo a loro e dice: " Voi non avete da mangiare: non avete di vostro altro che la fame. L'unica protesta che vi rimane è questa: la vostra fame. Siete abituati a digiunare, andiamo tutti insieme a digiunare sulla spiaggia del mare. Stiamo a guardare, digiunando, i contrabbandieri protetti dalle autorità, che continuano a far rapina del pesce che la legge vorrebbe riservato a voi. Consoliamoci insieme col nostro digiuno; mettiamo in comune questo nostro unico bene, la fame. E per essere più sereni, porteremo sulla spiaggia qualche disco e ascolteremo la musica di Bach". (Qualcuno ha sorriso su questo particolare della musica: non ha ricordato che anche nella prima guerra mondiale questo era il motto dei fanti inchiodati nelle trincee: "canta che ti passa".)
Allora vengono fuori i commissari di polizia, gli agenti dell'ordine. Voi pensereste che intervengono finalmente per rimettere nella legalità i moto pescherecci contrabbandieri e per far cessare la loro rapina. No gli agenti dell'ordine intervengono per pigliarlsela con Danilo: per diffidare Danilo e i pescatori dal mettere in atto il loro proposito.
- non è permesso digiunare: vi vietiamo formalmente di digiunare.
-Ma come possiamo non diginare se non abbiamo più pesce da pescare?
-Non importa: digiunate a casa vostra, in privato, in segreto.
E’ un delitto digiunare in pubblico. Digiunare in pubblico vuol dire disturbare l'ordine pubblico.-
l'ordine pubblico di chi? L'ordine pubblico di chi ha da mangiare. Non bisogna disturbare con spettacoli di miseria e di fame la mensa imbandita di chi mangia bene; non bisogna che la gente ben nutrita, che va sulla spiaggia a passeggiare per meglio digerire il suo pranzo, sia disturbata dalla modesta vista dei pallidi affamati.
Questo è il primo misfatto: ora viene il secondo. Si legge sul solito documento:
"I cittadini di Partinico, donne comprese, proseguiranno l'azione giovedì 2 febbraio come è detto nella loro dichiarazione:
"Milioni di uomini nelle nostre zone stanno sei mesi all'anno con le mani in mano. Stare sei mesi all'anno con le mani in mano è gravissimo reato contro la nostra famiglia contro la società.
"Solo qui in Partinico su 25000 abitanti siamo in più di 7000 con le mani in mano per sei mesi all’anno e 7000 bambini e giovanetti non sono in grado di apprendere quanto assolutamente dovrebbero. Non vogliamo essere dei lazzaroni, non vogliamo arrangiarci da banditi: vogliamo collaborare esattamente alla vita, vogliamo il bene di tutti: e nessuno ci dica che questo è un reato.
"E’ nostro dovere di padri e di cittadini collaborare generosamente perché cambi il volto della terra, bandendo gli assassini di ogni genere. Chiediamo alle autorità, di collaborare con noi, indicando quali opere dobbiamo fare e come: altrimenti, assistiti dai tecnici, cominceremo dalle più urgenti.
" Perché sia più limpido a tutti il nostro muoverci, digiuneremo lunedì 30 gennaio; giovedì 2 febbraio cominceremo il lavoro. Frangeremo il pane con le mani.
"Vogliamo essere padri e madri anche noi e cittadini."
Seguono circa 700 firme.
Anche le circostanze di questo secondo misfatto sono chiare.
Ci sono a Partinico, oltre pescatori, altre migliaia di disoccupati. La Costituzione dice che il lavoro è un diritto e un dovere. Allora, che cosa fanno questi settemila disoccupati: invadono le terre dei ricchi, saccheggiano i negozi alimentari, assaltano i palazzi, si danno alla macchia, diventano banditi?
No. Decidono di lavorare: di lavorare gratuitamente; di lavorare nell'interesse pubblico.
Nelle vicinanze del paese si trova, abbandonata, una trazzera destinata al passo pubblico; nessuno ci passa più, perché il comune non provvede, come dovrebbe, alla sua manutenzione; è resa impraticabile dalle buche e dal fango. Allora i disoccupati dicono: "Ci metteremo a riparare gratuitamente la trazzera , la nostra trazzera. Ci redimeremo, lavorando da questo avvilimento quotidiano, da questa quotidiana istigazione al delitto che è l'ozio forzato. In grazia del nostro lavoro la strada tornerà ad essere praticabile. I cittadini ci passeranno meglio. Il sindaco ci ringrazierà". Che cosa è questo? E’ la stessa cosa che avviene quando, dopo una grande nevicata, se il Comune non provvede a far spalare la neve sulle vie pubbliche, i cittadini volenterosi si organizzano in squadre per fare essi, di loro iniziativa, ciò che la pubblica autorità dovrebbe fare e non fa; e la stessa cosa che avviene, e spesso è avvenuta, quando, a causa di uno sciopero degli spazzini pubblici, i cittadini volenterosi si sono messi a rimuovere dalle strade cittadine le immondizie e in questo modo si sono resi benemeriti della salute di tutti.
Giustamente uno dei difensori che mi hanno preceduto, il collega Taormina, ha detto che questo è un caso di "negotiorum gestio": un caso, si potrebbe dire, di esercizio privato di pubbliche funzioni volontariamente assunte dai cittadini a servizio della comunità e in ossequio al senso di solidarietà civica.
Allora, per impedire anche questo secondo misfatto, arrivano i soliti commissari Lo Corte e Di Giorgi, e questa volta non si limitano alle diffida e questa volta non si limitano alle diffide. Questa volta fanno di più e di meglio: aggrediscono questi uomini mentre pacificamente lavorano a piccoli gruppi dispersi sulla trazzera, strappano dalle loro mani gli strumenti del lavoro, lì incatenano e li trascinano nel fango, tirandoli per le catene come carne insaccata, come bestie da macello.
Bene.
Rimane dunque inteso che digiunare in pubblico è una manifestazione sediziosa; che lavorare gratuitamente per pubblica utilità, per rendere più strada una pubblica strada, è una manifestazione sediziosa.
E a questo punto interviene il giudice istruttore a dare il suo giudizio: "spiccata capacità a delinquere".
E poi riprende la parola il P.M.: "otto mesi di reclusione a Danilo Dolci e ai suoi complici".
Bene.
Ma come può essere avvenuto questo capovolgimento, non dico del senso giuridico, ma del senso morale e perfino del senso comune?
Guardiamo di rendercene conto con serenità.
Al centro di questa vicenda giudiziaria c'è, come la scena madre di un dramma, un dialogo tra due personaggi, ognuno dei quali ha assunto senza accorgersene un valore simbolico.
E’, tradotto in cruda rossa di cronaca giudiziaria, il dialogo eterno tra Creonte e Antigone, tra Creonte che difende la cieca legalità e Antigone che obbedisce soltanto alla legge morale della coscienza, alle "leggi non scritte" che preannunciano l'avvenire.
Nella traduzione di oggi, Danilo dice: "per noi la vera legge e la Costituzione democratica"; il commissario Di Giorgi risponde: "per noi l'unica legge è il test unico di pubblica sicurezza del tempo fascista".
Anche qui il contrasto è come quello tra Antigone e Creonte: tra la umana giustizia e i regolamenti di polizia; con questo solo di diverso, che qui Danilo non invoca leggi "non scritte". (Perché, per chi non lo sapesse ancora, la nostra Costituzione è già stata scritta da dieci anni.)
Chi dei due interlocutori ha ragione?
Forse, a guardare alla lettera, hanno ragione tutt’e due.
Ma a chi spetta, non dico il peso e la responsabilità, ma dico il vanto di decidere, sotto questo contrasto letterale, da che parte è la verità: a chi spetta sciogliere queste antinomie?
Siete voi, o Giudici, che avete questa gloria: voi che nella vostra coscienza, come in un alambicco chimico, dovete fare la sintesi di questi opposti.
E qui affiora il secondo sul quale io mi trovo in dissidio con le premesse affermate dal P.M.:, quando egli ha detto che i giudici non devono tener conto delle "correnti di pensiero", che i testimoni accorsi da tutta Italia hanno fatto passare in questa aula.
Ma che cosa sono le leggi , illustre rappresentante del P.M. se non esse stesse "correnti di pensiero"? Se non fossero questo, non sarebbero che carta morta: se lo lascio andare, questo libro dei codici che ho in mano, cade sul banco come un peso inerte.
E invece le leggi sono vive perché dentro queste formule bisogna far circolare il pensiero del nostro tempo, lasciarvi entrare l'aria che respiriamo, mettervi dentro i nostri propositi, le nostre speranze, il nostro sangue e il nostro pianto.
Altrimenti le leggi non restano che formule vuote, pregevoli giochi da legulei; affinché diventino sante, vanno riempite con la nostra volontà.
Voi non potete ignorare, signori Giudici, poiché anche voi vivete la vita di tutti i cittadini italiani, il carattere eccezionale e conturbante del nostro tempo: che è un tempo di trasformazione sociale e di grandi promesse, che prima o poi dovranno essere adempiute: felici i giovani che hanno davanti a se il tempo per vederle compiute!
Questo è uno di quei periodi, che ogni tanto si presentano nella vita dei popoli, in cui la gloria di poter costruire pacificamente l'avvenire, il vanto di poter guidare entro la legalità questa trasformazione sociale che è in atto e che non si ferma più, spetta soprattutto ai giudici. Nella storia millenaria del nostro paese più volte si sono presentati questi periodi di trapasso da un ordinamento sociale ad un altro, durante i quali l'altissimo compito di adeguare il diritto alle esigenze della nuova società in formazione è stato assunto dalla giurisprudenza: basta pensare ai responsa dei prudentes, che hanno gradualmente fatto vivere nella rigidezza del diritto quiritario lo spirito cristiano trionfante nella legislazione giustinianea, o alle opiniones doctorum, che attraverso la decisione di singoli casi giudiziari hanno introdotto negli schemi del diritto feudale lo spirito umanistico del diritto comune.
Anche oggi l'Italia vive uno di questi periodi di trapasso, nei quali la funzione dei giudici, meglio che quella di difendere una legalità decrepita, è quella di creare gradualmente la nuova legalità promessa dalla Costituzione.
La nostra Costituzione è piena di queste grandi parole preannunziatrici del futuro: "pari dignità sociale"; "rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana"; "Repubblica fondata sul lavoro"; "Diritto al lavoro"; "condizioni che rendano effettivo questo diritto; assicurata ad ogni lavoratore e alla sua famiglia "un'esistenza libera e dignitosa"...
Grandi promesse che penetrano nei cuori e li allargano, e che una volta intese non si possono più ritirare. Come potete voi pensare che i derelitti che hanno avuto queste promesse, e che vi hanno creduto e che chi si sono attaccati come naufraghi alla tavola di salvezza, possono ora essere condannati come delinquenti solo perché chiedono, civilmente senza far male nessuno, che queste promesse siano adempiute come la legge comanda?
Signori Giudici, che cosa vuol dire libertà, che cosa vuol dire democrazia? Vuol dire prima di tutto fiducia del popolo nelle sue leggi: che il popolo senta le leggi dello Stato come le sue leggi, come scaturite dalla sua coscienza, non come imposte dall'alto. Affinché la legalità discenda dai codici nel costume, bisogna che le leggi vengano dal di dentro non dal di fuori: le leggi che il popolo rispetta, perché esso stesso le ha volute così.
Ricordate le parole immortali di Socrate nel carcere di Atene? Parla delle leggi come di persone vive, come di persone di conoscenza. "le nostre leggi, sono le nostre leggi che parlano". Perché le leggi della città possano parlare alle nostre coscienze, bisogna che siano come quelle di Socrate, le " nostre " leggi.
Nelle più perfette democrazie europee, in Inghilterra, in Svizzera, in Scandinavia, il popolo rispetta le leggi perché ne è partecipe e fiero; ogni cittadino le osserva perché sa che tutti le osservano: non c'è una doppia interpretazione della legge, una per i ricchi e una per i poveri!
Ma questa è, appunto, la maledizione secolare che grava sull'Italia: il popolo non ha fiducia nelle leggi perché non è convinto che queste siano le sue leggi. Ha sempre sentito lo Stato con un nemico. Lo Stato rappresenta agli occhi della povera gente la dominazione. Può cambiare il signore che domina, ma la signoria resta: dello straniero, della nobiltà, dei grandi capitalisti, della burocrazia. Finora lo Stato non è mai apparso alla povera gente come lo Stato del popolo.
Da secoli i poveri hanno il sentimento che le leggi siano per loro una beffa dei ricchi: hanno della legalità e della giustizia un'idea terrificante, come di un mostruoso meccanismo ostile fatto per schiacciarli, come di un labirinto di tranelli burocratici predisposti per gabbare il povero e per soffocare sotto le carte incomprensibili tutti i suoi giusti reclami.
Nella prefazione che Norberto Bobbio ha dettato per il libro di Danilo Dolci Banditi a Partinico, è riportato come tipico un episodio."Ho fatto più di quattro domande per avere la pensione -dice il padre.-Niente. Mi mandano a chiamare i carabinieri:-ci vuole questo documento.-Subito facciamo questo documento, subito. Poi mi mandano a chiamare in Municipio e mi dicono che ci voleva stato di famiglia, atto matrimoniale, fede di nascita, fede di morte di mio figlio, tutto. Ci ho fatto tutto. Ci ho mandato in Municipio stesso, da lì a Roma. Niente. Dal 1942. E 12 anni "ca ci cumbattu cu sta pensioni". E la moglie: "Have a cridere che a mia mi ritiraru lu librettu e mi disseru:-Ora se nè pò ire che vossìa have la pensioni".
Questa è la maledizione di Partinico, ma questa è sempre stata anche la maledizione di Italia. In ogni regione d'Italia più o meno è così: le leggi per gli umili non contano. Per avere giustizia dagli uffici amministrativi occorre farsi raccomandare da qualche personaggio importante o strepitare. Ma forse neanche screditare conta; perché se strepita il povero, viene il commissario Di Giorgi che lo porta in prigione.
E allora ecco Danilo:
-Basta con questa maledizione, basta con questa sfiducia; ma basta anche con la violenza. Voi dovete credere nelle leggi; voi dovete credere nella giustizia di chi governa. La legge è come una religione (una religione di cui questa aula giudiziaria è un tempio). Perché la legge faccia i suoi miracoli, bisogna crederci.-
È un ingenuo? È un illuso?
Danilo è stato paragonato a Renzo dei promessi sposi, nella famosa scena dell'osteria.
Ricordate? "pane, abbondanza, giustizia."Lo sente dire da Ferrer, che era una specie di prefetto di quei tempi. Renzo ci crede: anche lui si mette a ripetere "pane, abbondanza, giustizia". E va a finire nelle mani dei birri.
Anche Danilo è andato a finire in prigione. E dunque anche lui soltanto ingenuo? Soltanto un’illuso? No: Danilo è qualche cosa di più. Non dimentichiamo come è cominciata la vicenda di Danilo. Il caso determinante della sua vita è stato l'incontro con un bambino morto di fame. Quando nell'estate del 1952 Danilo ebbe visto morire di fame il figlioletto di Mimma e Giustina Barretta, allora egli si accorse di trovarsi "in un mondo di condannati morte"; e gli apparve chiara l'idea che questo mondo non si redime con la violenza, ma col sacrificio. Fu allora che disse: " su questo stesso letto dove questa creatura innocente è morta di fame, io, che potrei non essere povero, mi lascerò morire di fame come lui, per portare una testimonianza, per dare con la mia morte un esempio, se le autorità non si decideranno a provvedere ". E dopo una settimana di digiuno, che già aveva ridotto Danilo in fin di vita, le autorità finalmente intervennero, non per pietà, ma per liberarsi dalla responsabilità di lasciarlo morire; essi decisero di offrire subito le prime somme occorrenti per pagare i debiti dei pescatori e dei braccianti del luogo e, e per iniziare i lavori di sistemazione delle strade e delle acque. Poi nuovamente si fermarono: ma soltanto così Danilo era riuscito a svegliare il torpore burocratico dei padroni. Ma ecco che qui entra ancora in scena il commissario Di Giorgi, che in questo dramma rappresenta la quotidiana certezza del conformismo, la voce scettica dei benpensanti:
-Danilo Danilo, sono utopie, sono illusioni! ("fanatismo mistico" ha detto ieri il P.M.).
Par che dica, il commissario Di Giorgi: -Danilo, ma chi te lo fa fare? Sei giovane, sei istruito, sei un architetto, uno scrittore. Non sei di queste terre desolate. Torna ai tuoi paesi. Lascia i poveri di Partinico in compagnia della loro miseria e della loro fame... Danilo, chi te lo fa fare?-
La voce del buonsenso, la voce dei benpensanti; ma Danilo non è un benpensante, non segue la rassegnata è soddisfatta voce del buonsenso.
Danilo mi fa venire in mente la storia di fra Michele Minorita. È un'antica cronaca fiorentina, rievoca anche la figura di un monaco, appartenente all'ordine dei "fraticelli della povera vita", che praticavano la povertà assoluta che predicavano che nel Vangelo Cristo e gli apostoli non avevano mai riconosciuto la proprietà privata. Il Papa Giovanni XXII condannò questa affermazione come eresia: e fra Michele per averla predicata fu condannato, nel 1389, al rogo.
La cronaca racconta la prigionia e il processo e descrive il corteo che accompagnò dalla prigione al supplizio il condannato e le sue soste lungo la strada, come se fossero le stazioni della Via Crucis. Dal carcere del Bargello per arrivare al rogo egli passa, scalzo e vestito di pochi cenci, in mezzo agli armigeri, per le vie di Firenze. Due ali di popolo lo stanno a vedere: e gli lanciano al passaggio frasi di incitamento e di scherno, invocazioni esaltate o beffardi consigli. I più lo consigliano all'abiura: "sciocco, pentiti, pèntiti, non voler morire, campa la vita!". Ed egli risponde, mentre passa, senza voltarsi: "pentitevi voi de’ peccati, pentitevi delle usure, delle false mercantzie". (Forse tra quel pubblico che lo incitava a pentirsi e a non voler morire c'era anche, pieno di buone intenzioni, il commissario Di Giorgi: "Illusioni, utopie, chi te lo fa fare?".)
A un certo punto, quando ormai è vicino al rogo, poiché ancora uno dei presenti torna a gridargli: "Ma perché ti ostini a voler morire?", egli risponde: "Io voglio morire per la verità: questa è una verità, ch’io ho albergata in me, della quale non se ne può dare testimonio se non morti". E con queste parole sale sul rogo; ma proprio mentre stanno per dar fuoco, ecco che arriva un messo dei Priori a fare un ultimo tentativo, per persuaderlo a smentirsi e così salvargli la vita. Ma egli dice di no. E uno degli armigeri, di fronte a questa fermezza, domanda: "ma dunque costui ha il diavolo addosso?"; al che l'altro armigero, nel dar fuoco, risponde (e par di sentire la sua voce strozzato dal pianto): "Forse ci ha Cristo".
Per questo, signori Giudici, voi avete visto le "correnti di pensiero", che in questo momento sono vicine a Danilo, sfilare in quest’aula a testimoniare. Esse non sono arrivate qui per esercitare su di voi pressioni o intromissioni sulla vostra coscienza intemerata e fiera: sono venute soltanto per testimoniare la loro solidarietà a Danilo. Ma questa solidarietà della cultura italiana per Danilo Dolci è un fatto, che voi non potete ignorare; siete anche voi uomini del nostro tempo, e anche voi sentite il dovere di valutarle, di spiegarle storicamente.
Come si può spiegare questa solidarietà? Certamente voi avete avvertito nelle parole di questi testimoni non soltanto un senso di solidarietà e quasi di complicità con Danilo, ma altresì un senso più profondo, quasi direi di umiliazione e di contrizione di questa cultura: per aver tardato tanto ad accorgersi di questi dolori; per aver atteso, prima di accorgersi, che fosse Danilo a dare l'esempio.
Il carattere singolare ed esemplare di Danilo Dolci e proprio qui: di questo uomo di cultura, che per manifestare la sua solidarietà ai poveri non si è accontentato della parola parlata o scritta, dei comizi, degli ordini del giorno e dei messaggi; ma ha voluto vivere la loro vita, soffrire la loro fame, dividere il loro giaciglio, scende nella loro forzata abiezione per aiutarli a ritrovare e a reclamare la loro dignità e la loro redenzione.
Questa è la singolarità di Danilo: qualcuno potrebbe dire l'eroismo; qualcun altro potrebbe anche essere tentato di dire la santità.
Qui e fuori di qui siamo in molti a pensare e a ripetere che la cultura, se vuol essere viva e operosa, qualcosa di meglio dell'inutile e arida erudizione, non deve appartarsi dalle vicende sociali, non deve rinchiudersi nella torre d'avorio senza curarsi delle sofferenze di chi batte alla porta di strada. Tutto questo lo diciamo e lo scriviamo da decenni; ma tuttavia siamo incapaci di ritrovare il contatto fraterno con la povera gente. Siamo pronti a dire parole giuste; ma non sappiamo rinunciare al nostro pranzo, al nostro comodo letto, alla nostra biblioteca appartata e tranquilla. Tra noi e la gente più umile resta, per quanto ci sforziamo, come uno schermo invisibile, che ci rende difficile la comunicazione immediata. Il popolo ci sente come di un altro ceto: sospetta che questa fraternità di parole sia soltanto oratoria.
Per Danilo no. L'eroismo di Danilo è questo: dove più la miseria soffoca la dignità umana, egli ha voluto mescolarsi con loro e confortarli non con i messaggi ma con la sua presenza; diventare uno di loro, dividere con loro il suo pane e il suo mantello, e chiedere in cambio ai suoi compagni una delle loro pale e un po' di fame.
Questo intellettuale triestino, che se avesse voluto avrebbe potuto costruirsi in breve, coi guadagni del suo lavoro di artista, una vita brillante e comoda in qualche grande città e una casa piena di quadri e di libri, è andato a esiliarsi a Partinico, nel povero paese rimasto impresso nei suoi ricordi di bambino, e si è fatto pescatore affamato e spalatore della trazzera per far intendere a questi diseredati, con la eloquenza dei fatti, che la cultura è accanto a loro, che la sorte della nostra cultura è la loro sorte, che siamo, scrittori e pescatori e sterratori, tutti cittadini dello stesso popolo, tutti uomini della stessa carne. Egli ha fatto quello che nessuno di noi aveva saputo fare. Per questo sono venuti qui da tutta Italia gli uomini di cultura a ringraziarlo: a ringraziarlo di questo esempio, di questo riscatto operato da lui, agnus qui tollit peccata di una cultura fino a ieri immemore dei suoi doveri.
Certo, Danilo Dolci non è un personaggio comodo per i commissari di pubblica sicurezza. Io mi immagino i loro discorsi: "In fondo, un brav'uomo. Ma uno scervellato, un seccatore, un piantagrane".
Mi viene in mente una lettera scritta pochi giorni fa dal mio amico Jemolo a una altissima autorità. Dopo avere attestato l'altezza morale di Danilo, egli continuava: "Certo sarà noioso per le autorità costituite; ma pensa quanto lo saranno stati a loro tempo San Francesco o San Bernardino da Siena".
Si, i santi sono noiosi: e in generale, anche senza disturbare santi, è certo che in questa società compressa da una crosta di accomodante scetticismo sono noiosi in generale gli uomini onesti, gli uomini che prendono le cose sul serio. Per chi sta bene e ha la vita facile, sono insopportabili questi importuni che ricordano col loro esempio, fastidioso come un rimprovero vivente, che nel mondo esiste la onestà e la dignità.
Imparai da ragazzo su qualche antologia un episodio della vita di un santo; in questi giorni mi è tornato in mente. Vi confesso che a Firenze, prima di partire per venir qui, invece di consultare i codici per prepararmi a questa discussione, mi sono messo a ricercare nelle vite dei santi il testo preciso di questo episodio: mi pareva di ricordarmi che fosse nella vita di San Filippo Neri ma non l'ho trovato. Forse è nella vita di Don Bosco.
Certo, o l'uno o l'altro, si trattava di un santo: ma finché fu vivo era considerato come un terribile spettatore dei ricchi, alle cui porte andava a battere ogni giorno per chiedere carità per i poveri. A tutti i momenti se lo ritrovavano dinanzi: lì perseguitava con le sue preghiere, fino a che anche i più avari, pur di levarselo di torno, gli davano quello che chiedeva: e lui correva a portare pane agli affamati.
Un giorno andò a bussare alla porta di un signore ricchissimo, ma particolarmente iracondo e prepotente: e tanto insistè, nonostante i ripetuti dinieghi, che questo alla fine, gonfio d’ira, lo investì di ingiurie e lo prese a schiaffi. Il santo stette impassibile a ricevere le percosse senza muoversi, come se fosse il pagamento di una cosa dovuta: senza neanche ripararsi il viso con le mani (forse lo fece per non essere imputato, dal P.M. di quei tempi, di "resistenza"). E alla fine, quando quel prepotente si fu sfogato, riprese candidamente: "sta bene, questi sono per me: il conto torna. Ma ora bisogna riprendere il nostro discorso: bisogna che tu mi dia i denari per i poveri...".
Io mi auguro che il P.M. ritrovi per conto suo il testo originale dove questo episodio è raccontato per esteso. Siamo d'accordo: anche Danilo è un seccatore: per questo gli hanno messo i ferri; per questo lo hanno arrestato; per questo lo hanno trascinato nel fango; per questo lo vorrebbero tenere per altri otto mesi in prigione.
E sia pure. E poi? E i disoccupati di Partinico? E la fame di Partinico? I bambini che muoiono di fame a Partinico? Che darete ad essi? Che parola di speranza di conforto uscirà per essi dalla vostra sentenza?
No, questa non è, onorevole signor P.M., una "comunissima vicenda giudiziaria". Questo non è il processo di Danilo Dolci. Su quella panca degli imputati non c'è lui; altre colpe, altre incurie, altre crudeltà, altri delitti siedono su quella panca: tutti li conosciamo anche voi li conoscete.
Questa non è la causa di Danilo; e neanche di Partinico; e neanche della Sicilia. E’ la causa del nostro Paese: del nostro Paese da redimere e da bonificare.
Si parla tra i giuristi di "bonifica costituzionale"; siate voi, magistrati, gli antesignani di questa bonifica. Nella Maremma della mia Toscana, nelle terre incoltivate che si distribuiscono ai contadini, per poter arrivare a seminare bisogna prima spezzare la crosta di tufo pietroso che vi è depositata da due millenni di alluvioni; per spezzarla occorrono i trattori: e solo così, sotto quella crosta, si trova la terra fertile e fresca, e in essa, ancora intatte le tombe dei nostri padri etruschi.
Bisogna in tutta Italia spezzare nello stesso modo questa crosta di tradizionale feudalesimo e di inerte conformismo burocratico che soffoca la nostra società: e ritrovare sotto la crosta spezzata il popolo vivo, il popolo sano, il popolo fertile, il popolo vero del nostro Paese: e le tradizioni di saggia ed umana equità che esso ha conservato dai lontani millenni.
Vorrei, signori Giudici, che voi sentiste con quale ansia migliaia di persone in tutta Italia attendono che voi decidiate con giustizia, che vuol dire anche con indipendenza e con coraggio questa causa eccezionale: e che la vostra sia una sentenza che apra il cuore della speranza, non una sentenza che ribadisca la disperazione.
Colleghi e amici siciliani, noi siamo venuti in Sicilia, e vi ringraziamo di averci consentito di essere qui al vostro fianco, per dirvi che tutto quello che vi addolora, tutto quello che vi offende, addolora e offende anche noi. Questa vostra angoscia è anche la nostra angoscia: anche noi ci sentiamo bruciare dal vostro sdegno. Vogliamo anche noi prendere sulle nostre spalle, con l'aiuto della Costituzione, il destino del nostro Paese.
Qualche giorno fa, sfogliando un giornale straniero, vi ho letto una notizia dall'Italia che mi ha fatto arrossire. C'era scritto, a proposito di questo processo di Danilo, questo titolo: "In Italia a chi chiede rispetto della Costituzione si nega la libertà provvisoria". Non è vero, non è vero! Signori Giudici, diteci che non è vero! Permetteteci di dire agli stranieri che non è vero!
Voi dovete aiutarci, signori Giudici a difendere questa Costituzione che è costata tanto sangue e tanto dolore voi dovete aiutarci a difenderla, e a far sì che si traduca in realtà.
Vedete, in quest’aula, in questo momento, non ci sono più giudici e avvocati, imputati e agenti di polizia: ci sono soltanto italiani: uomini di questo Paese che finalmente è riuscito ad avere una Costituzione che promette libertà e giustizia.
Aiutateci, signori Giudici, colla vostra sentenza, aiutate i morti che si sono sacrificati e aiutate i vivi, a difendere questa Costituzione che vuol dare a tutti i cittadini del nostro Paese pari giustizia è pari dignità!
Danilo Dolci trascorse circa due mesi nel carcere dell'Ucciardone, essendogli stata negata la liberta' provvisoria per la "spiccata capacita' a delinquere". Al termine del processo fu condannato insieme ai cinque coinputati per invasione di terreni.
Qui disponibile l'arriga interpretata da Bertinotti per uno spettacolo teatrale su Danilo.
Signori Giudici.
Questo processo avrebbe potuto concludersi, meglio che con la parola mia, con la parola di un giovane. Le parole dei giovani sono parole di speranza, preannunziatrici dell'avvenire: e questo è un processo che preannuncia l'avvenire.
Avrebbe dovuto parlare prima l'imputato, Danilo Dolci che è un giovane; e dopo di lui,non per difenderlo ma per ringraziarlo, il più giovane dei suoi difensori, l'avvocato Antonino Sorgi.
Se si fosse fatto così questo processo sarebbe finito da cinque giorni; e da cinque giorni Danilo Dolci e gli altri imputati, i cosiddetti "imputati", sarebbero tornati a Partinico, invece di tornarvi, come vi torneranno, soltanto stasera, dopo l'assoluzione, a far Pasqua con le loro famiglie.
Ma forse, per la risonanza nazionale e sociale di questo processo, è stato meglio che sia avvenuto così: che abbiano parlato anche i vecchi e meno giovani; e non brevemente.
E così l'onore e la responsabilità di chiudere la discussione e di rivolgervi, signori giudici, l'ultima preghiera che vi accompagnerà in camera di consiglio, sono toccati a me; non solo per la mia età, ma forse anche perché io sono qui, unico tra i difensori, soltanto un avvocato civilista, cioè un avvocato che non ha esperienza professionale di processi penali.
Questo, infatti, non è un processo penale: o almeno non è quello che i profani si immaginano, quando parlano di un processo penale.
Nel processo penale il pubblico concentra i suoi sguardi sul banco degli imputati, perché crede di vedere in quell'uomo, anche se innocente, il reo, l'autore del delitto: l'uomo che ha ripudiato la società, che è una minaccia per la convivenza sociale.
L'imputato è solo, inconfondibile, diverso agli occhi del pubblico da tutti gli altri uomini, isolato dentro la sua gabbia e, anche quando la gabbia non c'è, isolato dentro la sua colpa.
Ma questo non è un processo penale: dov'è il reo, il delinquente, il criminale? Dov'è il delitto, in che consiste il delitto, chi lo ha commesso?
Angosciose domande: alle quali forse neanche il P.M., nella sua misurata requisitoria che abbiamo ammirato non tanto per quello che ha detto quanto per quello che ha lasciato intendere senza dirlo, saprebbe in cuor suo dare una tranquillante risposta.
Non a caso qui il banco degli imputati e quello dei difensori sono così vicini, fino a parere un banco solo. Dove sono gli imputati e dove i difensori? Qui, in realtà, o siamo tutti difensori o siamo tutti imputati.
In questa aula, da qualunque parte ci volgiamo, nei vari seggi di essa, non ci sono altri che uomini che si trovano qui, perché hanno voluto e vogliono prestare ossequio alla legge: osservarla, servirla.
La sigla è quasi si direbbe il vertice magico di questo processo è in quella formula laconica intarsiata con caratteri antichi sulla cattedra ove siedono i giudici. Non è la solita frase che in altre aule si legge scritta sul muro al disopra delle teste di giudici, quella frase che suscita tante speranze ma anche tante perplessità: "La legge uguale per tutti". No: il motto di questa aula è molto più laconico, misterioso e conciso come la risposta di un oracolo: "La legge".
Questo è l'imperativo categorico che ci tiene tutti qui incatenati dallo stesso dovere, appassionati dalla stessa passione: "de legibus".
Il Tribunale che siede è per definizione l'organo che, amministrando giustizia, fa osservare la legge.Il P.M., che siede al lato del collegio giudicante, è il rappresentante della legge.Noi avvocati siamo qui, al nostro posto, per difendere la legge. Dietro a noi, a fianco degli imputati e sulle porte, i commissari e gli agenti di polizia sono gli esecutori della legge.
E poi ci sono questi imputati: imputati di che? Mah... di nient'altro che di aver voluto anch'essi servire la legge: di aver voluto soffrire la fame e lavorare gratuitamente allo scopo di ricordare agli immemorì il dovere di servire la legge.
Ma allora vuol dire che siamo tutti qui per lo stesso scopo: quale è il punto del nostro dissidio, quale è il tema del nostro dibattito? Perché noi avvocati stiamo a questo banco degli imputati dietro a noi e i giudici nei loro seggi più alti? di che stiamo noi discutendo?
In verità io non riesco a riconoscere su queste facce di imputati, così tranquille e serene, le tristi impronte della delinquenza; né riesco a scoprire nelle umane facce dei carabinieri che stanno accanto a loro la fredda insensibilità dell'aguzzino. Io so che essi, quando mettono le manette a questi imputati, si sentono in fondo al cuore umiliati e addolorati di questo crudo cerimoniale, che pure hanno il dovere di compiere: quando la mattina gli imputati entrano in quest'aula incatenati, come prescrive il regolamento di polizia, non sono essi che provano rammarico e vergogna per quelle catene. Ho visto con i miei occhi che, nonostante quei polsi serrati nelle manette, le loro facce rimangono serene e sorridenti; ma un'ombra di mestizia traspare sui volti di chi li accompagna.
No no, il dissidio non è qui, in questa aula: il dissidio è più lontano e più alto. Sarebbe follia pensare che Danilo abbia potuto indirizzare agli agenti che lo arrestarono, fatti della stessa carne di questi che oggi lo accompagnano, l'epiteto di " assassini ". Danilo non parlava e non parla a loro. Gli assassini ci sono, ma sono fuori di qui, sono altrove: si tratta di crudeltà più inveterate, di tirannie secolari, più radicate e più potenti; e più irraggiungibili.
Di quello che è avvenuto, signori del Tribunale, non si deve dare colpa alla polizia, la quale è soltanto una esecutrice di ordini che vengono dall'alto. In quanto a me, vi dirò anzi che ho sentito dire che io dovrei essere debitore, verso qualcuno degli agenti che hanno deposto in questo processo, di speciali ragioni di gratitudine. Dai resoconti dati dalla stampa su una delle prime udienze, alla quale io non ho potuto partecipare, ho appreso che io dovrei ringraziare quel funzionario di polizia che oggi è commissario a Partinico, il dottore Lo Corte, del trattamento di favore che egli mi avrebbe usato a Firenze, nel periodo in cui egli apparteneva alla polizia della Repubblica di Salò: pare che nella sua deposizione egli abbia detto che mi trattò con speciale riguardo perché, quando venne al mio studio per arrestarmi, arrivò un quarto d'ora dopo che io ero uscito e così lasciò ineseguito il suo mandato. In verità io non mi ricordo di lui: e non so se devo essere grato a lui per essere arrivato un quarto d'ora dopo o a me stesso per essere uscito un quarto d'ora prima. Ma in ogni modo sono anche disposto ad essergli riconoscente: non sono queste vicende personali le cose che contano in questo processo.
Quello che conta è un'altra cosa: conoscere il perché umano e sociale di questo processo, collocarlo nel nostro tempo; vederlo, come tu ben dicevi, o amico Sorgi, storicamente, in questo periodo di vita sociale e in questo paese.
Io ho ammirato, lo ripeto, la misura con cui ha parlato il P.M.; ma su due delle premesse (oltreché, ben s'intende, su tutte le sue conclusioni) non posso essere d'accordo: e cioè quando egli ha detto che questa è " una comunissima vicenda giudiziaria ", e quando ha detto che per deciderla il Tribunale dovrà tener conto della legge ma non delle "correnti di pensiero" che i testimoni hanno portato in questa aula.
Dico, con tutto rispetto, che queste due affermazioni mi sembrano due grossi errori non soltanto sociali, ma anche specificamente giuridici. Non sono d'accordo sulla prima premessa. Questo non è un processo " comunissimo ": è un processo eccezionale, superlativamente straordinario, assurdo. Questo non è neanche un processo: è un apologo.
Un processo in cui si vorrebbe condannare gente onesta per il delitto di avere osservato la legge, anzi per il delitto di aver preannunciato e proclamato di volere osservare la legge: arrestati e rinviati a giudizio sotto l'imputazione di volontaria osservanza della legge con l'aggravante della premeditazione!
Per renderci conto con distaccata comprensione storica della eccezionalità e assurdità di questo processo, bisogna cercare di immaginare come questa vicenda apparirà, di qui a 50 o a 100 anni, agli occhi di uno studioso di storia giudiziaria al quale possa per avventura venire in mente di ricercare nella polvere degli archivi gli incartamenti di questo processo, per riportare in luce storicamente, liberandolo dalle formule giuridiche, il significato umano e sociale di questa vicenda.
Quali apparirebbero agli occhi dello storico gli atti più significativi di questo processo?
La sua attenzione si fermerebbe prima di tutto su quella ordinanza del giudice istruttore, con la quale, per negare agli arrestati la libertà provvisoria, si è testualmente affermato la "spiccata capacità a delinquere del detto imputato": il " detto imputato ", per chi non lo sapesse, sarebbe Danilo Dolci.
Suppongo che il magistrato che scrisse questa frase non abbia immaginato, al momento in cui la scrisse, il senso di sgomento che in centinaia di migliaia di italiani questa frase ha suscitato, quando l'hanno letta riferita sui giornali: senso di sgomento per lui, non per Danilo Dolci.
Ma, insomma, questa frase è stata scritta; e tra cinquant'anni lo storico la potrà leggere e potrà dire a se stesso:-Ecco, ho avuto la mano felice: ho trovato un caso interessante, il processo di un gran delinquente, un caso tipico di "spiccata capacità a delinquere".
Ma che cosa ha fatto mai Danilo Dolci per dimostrare questa sua " spiccata capacità "?
La capacità a delinquere, per me avvocato civilista, ha due aspetti: uno giuridico e uno sociale. Sotto l'aspetto giuridico mi pare che essa sia la tendenza e la attitudine a violare il diritto altrui; sotto l'aspetto sociale mi pare sia la incapacità di intendere che la vita in società è fatta di solidarietà e di altruismo: che senza solidarietà e senza altruismo non vi è civiltà. Il delinquente è essenzialmente un infelice esiliato nel suo sfrenato egoismo, un solitario incapace di vivere in società.
Dunque lo storico che si metterà a sfogliare questo processo, quando saranno da lungo tempo caduti e dimenticati quegli articoli della legge di pubblica sicurezza e del codice penale di cui stiamo qui a discutere da una settimana (quegli articoli che già assomigliano a quei gusci vuoti che rimangono attaccati ai tronchi degli ulivi quando già ne è volato via l'insetto vivo), scorrerà attentamente gli incartamenti per ricercare le prove di questa "spiccata capacità a delinquere " che l'ordinanza istruttoria con tanta durezza preannuncia. E, senza perdersi in sottili acrobazie di dialettica giuridica, si domanderà umanamente: che cosa avevano fatto di male questi imputati? In che modo avevano offeso il diritto altrui; in che senso avevano offeso la solidarietà sociale e mancato al dovere civico di altruismo?
Lo storico arriverà a trovare documentati nel seguito del processo due "misfatti".
Io mi limito a leggere qualche passo di un solo documento: di un documento che è ancora nelle mie mani e che dà a questa mia difesa il carattere non solo di una testimonianza, ma anche, come ieri vi dicevo, di una complicità.
Quando alla fine dello scorso gennaio Danilo Dolci, dopo essere stato a Torino per consultarsi con i suoi amici sulle azioni che si proponeva di svolgere a Partinico, passò da Firenze nel viaggio di ritorno, venne al mio studio per consigliarsi anche con me come legale ed esser sicuro che quello che stava per fare entrasse perfettamente nei limiti delle leggi. Non mi trovò; e allora mi lasciò una copia del foglietto che in questo momento vi sto leggendo, con questa nota scritta di suo pugno: "Speravo di vederti e di avvisarti. Un saluto con affetto. Tuo Danilo". Quando tornai dopo due giorni, e lessi il foglietto, il quale conteneva, come ora vi dirò, il programma di quello che stava per succedere a Partinico, trovai che niente di quello che era preannunciato in tale programma poteva in qualsiasi modo andar contro alle leggi o ai regolamenti di polizia: e per questo mi guardai bene dall’avvertire Danilo Dolci, che intanto era ritornato a Partinico, di astenersi dal fare quello che si proponeva. Se in quello che ha fatto c’è qualche cosa di contrario alla legge, sono dunque responsabile anch’io di complicità e, e forse la mia responsabilità è più grave della sua, perché io dovrei avere quella conoscenza tecnica delle leggi che Danilo non ha.
Dunque, vi dicevo, in questo documento che sto per leggervi c’è la prova di due misfatti.
Il primo misfatto è quello che si proponevano di compiere lunedì 30 gennaio i pescatori di Trappeto.
Si legge testualmente in questa dichiarazione:
"abbiamo ripetutamente documentato alle Autorità direttamente responsabili e all'opinione pubblica, per anni e anni, la pesca fuori legge della zona, gravissimo danno a tutti noi e all’economia nazionale.
" E’ profondamente doloroso e offensivo constatare che lo Stato non sa far rispettare le sue leggi più elementari, più giustificate: i mezzi di informazione e di pressione normali in uno Stato civile, qui sono stati assolutamente inefficaci. Decisi a fare rispettare le leggi, promuoviamo un movimento che non si fermerà fino a quando il buon senso e l'onestà non avranno trionfato. Inizieremo lunedì, 30 gennaio, digiunando per 24 ore."
Seguono circa 300 firme tra loro sono anche numerosi vecchi e ragazzi con piena coscienza dell'azione.
Questo è dunque il primo misfatto. Le circostanze sono semplici e chiare. Una piccola popolazione di poveri pescatori vive alla meglio con la pesca del suo mare. Per legge, il tratto di mare più vicino alla costa è riservato alla pesca della popolazione rivierasca; i motopescherecci, devono tenersi al largo. Ma qui i motopescherecci, per vecchio sistema, si beffano sfrontatamente della legge; da tempo vengono a pescare nel mare vicino alla riva, predando il pesce che dovrebbe dar da vivere ai piccoli pescatori. Così i pescatori locali non hanno più da pescare; questa sistematica rapina dei motopescherecci appartenenti a grandi società organizzate e protette dalle autorità, condanna i piccoli pescatori a morire di fame. Ricorrono alle autorità; ma le autorità non provvedono. Protestano, ma le autorità non ascoltano. Il contrabbando continua: qualcuno pensa che le autorità siano d'accordo coi contrabbandieri; e che ci sia qualcuno in alto che partecipa agli utili del contrabbando.
Allora che cosa fanno i pescatori che da anni reclamano giustizia e non riescono ad averla da chi dovrebbe darla: si ribellano? Si mettono a tumultuare? Rubano? Commettono violenze?
Niente di tutto questo. Arriva Danilo in mezzo a loro e dice: " Voi non avete da mangiare: non avete di vostro altro che la fame. L'unica protesta che vi rimane è questa: la vostra fame. Siete abituati a digiunare, andiamo tutti insieme a digiunare sulla spiaggia del mare. Stiamo a guardare, digiunando, i contrabbandieri protetti dalle autorità, che continuano a far rapina del pesce che la legge vorrebbe riservato a voi. Consoliamoci insieme col nostro digiuno; mettiamo in comune questo nostro unico bene, la fame. E per essere più sereni, porteremo sulla spiaggia qualche disco e ascolteremo la musica di Bach". (Qualcuno ha sorriso su questo particolare della musica: non ha ricordato che anche nella prima guerra mondiale questo era il motto dei fanti inchiodati nelle trincee: "canta che ti passa".)
Allora vengono fuori i commissari di polizia, gli agenti dell'ordine. Voi pensereste che intervengono finalmente per rimettere nella legalità i moto pescherecci contrabbandieri e per far cessare la loro rapina. No gli agenti dell'ordine intervengono per pigliarlsela con Danilo: per diffidare Danilo e i pescatori dal mettere in atto il loro proposito.
- non è permesso digiunare: vi vietiamo formalmente di digiunare.
-Ma come possiamo non diginare se non abbiamo più pesce da pescare?
-Non importa: digiunate a casa vostra, in privato, in segreto.
E’ un delitto digiunare in pubblico. Digiunare in pubblico vuol dire disturbare l'ordine pubblico.-
l'ordine pubblico di chi? L'ordine pubblico di chi ha da mangiare. Non bisogna disturbare con spettacoli di miseria e di fame la mensa imbandita di chi mangia bene; non bisogna che la gente ben nutrita, che va sulla spiaggia a passeggiare per meglio digerire il suo pranzo, sia disturbata dalla modesta vista dei pallidi affamati.
Questo è il primo misfatto: ora viene il secondo. Si legge sul solito documento:
"I cittadini di Partinico, donne comprese, proseguiranno l'azione giovedì 2 febbraio come è detto nella loro dichiarazione:
"Milioni di uomini nelle nostre zone stanno sei mesi all'anno con le mani in mano. Stare sei mesi all'anno con le mani in mano è gravissimo reato contro la nostra famiglia contro la società.
"Solo qui in Partinico su 25000 abitanti siamo in più di 7000 con le mani in mano per sei mesi all’anno e 7000 bambini e giovanetti non sono in grado di apprendere quanto assolutamente dovrebbero. Non vogliamo essere dei lazzaroni, non vogliamo arrangiarci da banditi: vogliamo collaborare esattamente alla vita, vogliamo il bene di tutti: e nessuno ci dica che questo è un reato.
"E’ nostro dovere di padri e di cittadini collaborare generosamente perché cambi il volto della terra, bandendo gli assassini di ogni genere. Chiediamo alle autorità, di collaborare con noi, indicando quali opere dobbiamo fare e come: altrimenti, assistiti dai tecnici, cominceremo dalle più urgenti.
" Perché sia più limpido a tutti il nostro muoverci, digiuneremo lunedì 30 gennaio; giovedì 2 febbraio cominceremo il lavoro. Frangeremo il pane con le mani.
"Vogliamo essere padri e madri anche noi e cittadini."
Seguono circa 700 firme.
Anche le circostanze di questo secondo misfatto sono chiare.
Ci sono a Partinico, oltre pescatori, altre migliaia di disoccupati. La Costituzione dice che il lavoro è un diritto e un dovere. Allora, che cosa fanno questi settemila disoccupati: invadono le terre dei ricchi, saccheggiano i negozi alimentari, assaltano i palazzi, si danno alla macchia, diventano banditi?
No. Decidono di lavorare: di lavorare gratuitamente; di lavorare nell'interesse pubblico.
Nelle vicinanze del paese si trova, abbandonata, una trazzera destinata al passo pubblico; nessuno ci passa più, perché il comune non provvede, come dovrebbe, alla sua manutenzione; è resa impraticabile dalle buche e dal fango. Allora i disoccupati dicono: "Ci metteremo a riparare gratuitamente la trazzera , la nostra trazzera. Ci redimeremo, lavorando da questo avvilimento quotidiano, da questa quotidiana istigazione al delitto che è l'ozio forzato. In grazia del nostro lavoro la strada tornerà ad essere praticabile. I cittadini ci passeranno meglio. Il sindaco ci ringrazierà". Che cosa è questo? E’ la stessa cosa che avviene quando, dopo una grande nevicata, se il Comune non provvede a far spalare la neve sulle vie pubbliche, i cittadini volenterosi si organizzano in squadre per fare essi, di loro iniziativa, ciò che la pubblica autorità dovrebbe fare e non fa; e la stessa cosa che avviene, e spesso è avvenuta, quando, a causa di uno sciopero degli spazzini pubblici, i cittadini volenterosi si sono messi a rimuovere dalle strade cittadine le immondizie e in questo modo si sono resi benemeriti della salute di tutti.
Giustamente uno dei difensori che mi hanno preceduto, il collega Taormina, ha detto che questo è un caso di "negotiorum gestio": un caso, si potrebbe dire, di esercizio privato di pubbliche funzioni volontariamente assunte dai cittadini a servizio della comunità e in ossequio al senso di solidarietà civica.
Allora, per impedire anche questo secondo misfatto, arrivano i soliti commissari Lo Corte e Di Giorgi, e questa volta non si limitano alle diffida e questa volta non si limitano alle diffide. Questa volta fanno di più e di meglio: aggrediscono questi uomini mentre pacificamente lavorano a piccoli gruppi dispersi sulla trazzera, strappano dalle loro mani gli strumenti del lavoro, lì incatenano e li trascinano nel fango, tirandoli per le catene come carne insaccata, come bestie da macello.
Bene.
Rimane dunque inteso che digiunare in pubblico è una manifestazione sediziosa; che lavorare gratuitamente per pubblica utilità, per rendere più strada una pubblica strada, è una manifestazione sediziosa.
E a questo punto interviene il giudice istruttore a dare il suo giudizio: "spiccata capacità a delinquere".
E poi riprende la parola il P.M.: "otto mesi di reclusione a Danilo Dolci e ai suoi complici".
Bene.
Ma come può essere avvenuto questo capovolgimento, non dico del senso giuridico, ma del senso morale e perfino del senso comune?
Guardiamo di rendercene conto con serenità.
Al centro di questa vicenda giudiziaria c'è, come la scena madre di un dramma, un dialogo tra due personaggi, ognuno dei quali ha assunto senza accorgersene un valore simbolico.
E’, tradotto in cruda rossa di cronaca giudiziaria, il dialogo eterno tra Creonte e Antigone, tra Creonte che difende la cieca legalità e Antigone che obbedisce soltanto alla legge morale della coscienza, alle "leggi non scritte" che preannunciano l'avvenire.
Nella traduzione di oggi, Danilo dice: "per noi la vera legge e la Costituzione democratica"; il commissario Di Giorgi risponde: "per noi l'unica legge è il test unico di pubblica sicurezza del tempo fascista".
Anche qui il contrasto è come quello tra Antigone e Creonte: tra la umana giustizia e i regolamenti di polizia; con questo solo di diverso, che qui Danilo non invoca leggi "non scritte". (Perché, per chi non lo sapesse ancora, la nostra Costituzione è già stata scritta da dieci anni.)
Chi dei due interlocutori ha ragione?
Forse, a guardare alla lettera, hanno ragione tutt’e due.
Ma a chi spetta, non dico il peso e la responsabilità, ma dico il vanto di decidere, sotto questo contrasto letterale, da che parte è la verità: a chi spetta sciogliere queste antinomie?
Siete voi, o Giudici, che avete questa gloria: voi che nella vostra coscienza, come in un alambicco chimico, dovete fare la sintesi di questi opposti.
E qui affiora il secondo sul quale io mi trovo in dissidio con le premesse affermate dal P.M.:, quando egli ha detto che i giudici non devono tener conto delle "correnti di pensiero", che i testimoni accorsi da tutta Italia hanno fatto passare in questa aula.
Ma che cosa sono le leggi , illustre rappresentante del P.M. se non esse stesse "correnti di pensiero"? Se non fossero questo, non sarebbero che carta morta: se lo lascio andare, questo libro dei codici che ho in mano, cade sul banco come un peso inerte.
E invece le leggi sono vive perché dentro queste formule bisogna far circolare il pensiero del nostro tempo, lasciarvi entrare l'aria che respiriamo, mettervi dentro i nostri propositi, le nostre speranze, il nostro sangue e il nostro pianto.
Altrimenti le leggi non restano che formule vuote, pregevoli giochi da legulei; affinché diventino sante, vanno riempite con la nostra volontà.
Voi non potete ignorare, signori Giudici, poiché anche voi vivete la vita di tutti i cittadini italiani, il carattere eccezionale e conturbante del nostro tempo: che è un tempo di trasformazione sociale e di grandi promesse, che prima o poi dovranno essere adempiute: felici i giovani che hanno davanti a se il tempo per vederle compiute!
Questo è uno di quei periodi, che ogni tanto si presentano nella vita dei popoli, in cui la gloria di poter costruire pacificamente l'avvenire, il vanto di poter guidare entro la legalità questa trasformazione sociale che è in atto e che non si ferma più, spetta soprattutto ai giudici. Nella storia millenaria del nostro paese più volte si sono presentati questi periodi di trapasso da un ordinamento sociale ad un altro, durante i quali l'altissimo compito di adeguare il diritto alle esigenze della nuova società in formazione è stato assunto dalla giurisprudenza: basta pensare ai responsa dei prudentes, che hanno gradualmente fatto vivere nella rigidezza del diritto quiritario lo spirito cristiano trionfante nella legislazione giustinianea, o alle opiniones doctorum, che attraverso la decisione di singoli casi giudiziari hanno introdotto negli schemi del diritto feudale lo spirito umanistico del diritto comune.
Anche oggi l'Italia vive uno di questi periodi di trapasso, nei quali la funzione dei giudici, meglio che quella di difendere una legalità decrepita, è quella di creare gradualmente la nuova legalità promessa dalla Costituzione.
La nostra Costituzione è piena di queste grandi parole preannunziatrici del futuro: "pari dignità sociale"; "rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana"; "Repubblica fondata sul lavoro"; "Diritto al lavoro"; "condizioni che rendano effettivo questo diritto; assicurata ad ogni lavoratore e alla sua famiglia "un'esistenza libera e dignitosa"...
Grandi promesse che penetrano nei cuori e li allargano, e che una volta intese non si possono più ritirare. Come potete voi pensare che i derelitti che hanno avuto queste promesse, e che vi hanno creduto e che chi si sono attaccati come naufraghi alla tavola di salvezza, possono ora essere condannati come delinquenti solo perché chiedono, civilmente senza far male nessuno, che queste promesse siano adempiute come la legge comanda?
Signori Giudici, che cosa vuol dire libertà, che cosa vuol dire democrazia? Vuol dire prima di tutto fiducia del popolo nelle sue leggi: che il popolo senta le leggi dello Stato come le sue leggi, come scaturite dalla sua coscienza, non come imposte dall'alto. Affinché la legalità discenda dai codici nel costume, bisogna che le leggi vengano dal di dentro non dal di fuori: le leggi che il popolo rispetta, perché esso stesso le ha volute così.
Ricordate le parole immortali di Socrate nel carcere di Atene? Parla delle leggi come di persone vive, come di persone di conoscenza. "le nostre leggi, sono le nostre leggi che parlano". Perché le leggi della città possano parlare alle nostre coscienze, bisogna che siano come quelle di Socrate, le " nostre " leggi.
Nelle più perfette democrazie europee, in Inghilterra, in Svizzera, in Scandinavia, il popolo rispetta le leggi perché ne è partecipe e fiero; ogni cittadino le osserva perché sa che tutti le osservano: non c'è una doppia interpretazione della legge, una per i ricchi e una per i poveri!
Ma questa è, appunto, la maledizione secolare che grava sull'Italia: il popolo non ha fiducia nelle leggi perché non è convinto che queste siano le sue leggi. Ha sempre sentito lo Stato con un nemico. Lo Stato rappresenta agli occhi della povera gente la dominazione. Può cambiare il signore che domina, ma la signoria resta: dello straniero, della nobiltà, dei grandi capitalisti, della burocrazia. Finora lo Stato non è mai apparso alla povera gente come lo Stato del popolo.
Da secoli i poveri hanno il sentimento che le leggi siano per loro una beffa dei ricchi: hanno della legalità e della giustizia un'idea terrificante, come di un mostruoso meccanismo ostile fatto per schiacciarli, come di un labirinto di tranelli burocratici predisposti per gabbare il povero e per soffocare sotto le carte incomprensibili tutti i suoi giusti reclami.
Nella prefazione che Norberto Bobbio ha dettato per il libro di Danilo Dolci Banditi a Partinico, è riportato come tipico un episodio."Ho fatto più di quattro domande per avere la pensione -dice il padre.-Niente. Mi mandano a chiamare i carabinieri:-ci vuole questo documento.-Subito facciamo questo documento, subito. Poi mi mandano a chiamare in Municipio e mi dicono che ci voleva stato di famiglia, atto matrimoniale, fede di nascita, fede di morte di mio figlio, tutto. Ci ho fatto tutto. Ci ho mandato in Municipio stesso, da lì a Roma. Niente. Dal 1942. E 12 anni "ca ci cumbattu cu sta pensioni". E la moglie: "Have a cridere che a mia mi ritiraru lu librettu e mi disseru:-Ora se nè pò ire che vossìa have la pensioni".
Questa è la maledizione di Partinico, ma questa è sempre stata anche la maledizione di Italia. In ogni regione d'Italia più o meno è così: le leggi per gli umili non contano. Per avere giustizia dagli uffici amministrativi occorre farsi raccomandare da qualche personaggio importante o strepitare. Ma forse neanche screditare conta; perché se strepita il povero, viene il commissario Di Giorgi che lo porta in prigione.
E allora ecco Danilo:
-Basta con questa maledizione, basta con questa sfiducia; ma basta anche con la violenza. Voi dovete credere nelle leggi; voi dovete credere nella giustizia di chi governa. La legge è come una religione (una religione di cui questa aula giudiziaria è un tempio). Perché la legge faccia i suoi miracoli, bisogna crederci.-
È un ingenuo? È un illuso?
Danilo è stato paragonato a Renzo dei promessi sposi, nella famosa scena dell'osteria.
Ricordate? "pane, abbondanza, giustizia."Lo sente dire da Ferrer, che era una specie di prefetto di quei tempi. Renzo ci crede: anche lui si mette a ripetere "pane, abbondanza, giustizia". E va a finire nelle mani dei birri.
Anche Danilo è andato a finire in prigione. E dunque anche lui soltanto ingenuo? Soltanto un’illuso? No: Danilo è qualche cosa di più. Non dimentichiamo come è cominciata la vicenda di Danilo. Il caso determinante della sua vita è stato l'incontro con un bambino morto di fame. Quando nell'estate del 1952 Danilo ebbe visto morire di fame il figlioletto di Mimma e Giustina Barretta, allora egli si accorse di trovarsi "in un mondo di condannati morte"; e gli apparve chiara l'idea che questo mondo non si redime con la violenza, ma col sacrificio. Fu allora che disse: " su questo stesso letto dove questa creatura innocente è morta di fame, io, che potrei non essere povero, mi lascerò morire di fame come lui, per portare una testimonianza, per dare con la mia morte un esempio, se le autorità non si decideranno a provvedere ". E dopo una settimana di digiuno, che già aveva ridotto Danilo in fin di vita, le autorità finalmente intervennero, non per pietà, ma per liberarsi dalla responsabilità di lasciarlo morire; essi decisero di offrire subito le prime somme occorrenti per pagare i debiti dei pescatori e dei braccianti del luogo e, e per iniziare i lavori di sistemazione delle strade e delle acque. Poi nuovamente si fermarono: ma soltanto così Danilo era riuscito a svegliare il torpore burocratico dei padroni. Ma ecco che qui entra ancora in scena il commissario Di Giorgi, che in questo dramma rappresenta la quotidiana certezza del conformismo, la voce scettica dei benpensanti:
-Danilo Danilo, sono utopie, sono illusioni! ("fanatismo mistico" ha detto ieri il P.M.).
Par che dica, il commissario Di Giorgi: -Danilo, ma chi te lo fa fare? Sei giovane, sei istruito, sei un architetto, uno scrittore. Non sei di queste terre desolate. Torna ai tuoi paesi. Lascia i poveri di Partinico in compagnia della loro miseria e della loro fame... Danilo, chi te lo fa fare?-
La voce del buonsenso, la voce dei benpensanti; ma Danilo non è un benpensante, non segue la rassegnata è soddisfatta voce del buonsenso.
Danilo mi fa venire in mente la storia di fra Michele Minorita. È un'antica cronaca fiorentina, rievoca anche la figura di un monaco, appartenente all'ordine dei "fraticelli della povera vita", che praticavano la povertà assoluta che predicavano che nel Vangelo Cristo e gli apostoli non avevano mai riconosciuto la proprietà privata. Il Papa Giovanni XXII condannò questa affermazione come eresia: e fra Michele per averla predicata fu condannato, nel 1389, al rogo.
La cronaca racconta la prigionia e il processo e descrive il corteo che accompagnò dalla prigione al supplizio il condannato e le sue soste lungo la strada, come se fossero le stazioni della Via Crucis. Dal carcere del Bargello per arrivare al rogo egli passa, scalzo e vestito di pochi cenci, in mezzo agli armigeri, per le vie di Firenze. Due ali di popolo lo stanno a vedere: e gli lanciano al passaggio frasi di incitamento e di scherno, invocazioni esaltate o beffardi consigli. I più lo consigliano all'abiura: "sciocco, pentiti, pèntiti, non voler morire, campa la vita!". Ed egli risponde, mentre passa, senza voltarsi: "pentitevi voi de’ peccati, pentitevi delle usure, delle false mercantzie". (Forse tra quel pubblico che lo incitava a pentirsi e a non voler morire c'era anche, pieno di buone intenzioni, il commissario Di Giorgi: "Illusioni, utopie, chi te lo fa fare?".)
A un certo punto, quando ormai è vicino al rogo, poiché ancora uno dei presenti torna a gridargli: "Ma perché ti ostini a voler morire?", egli risponde: "Io voglio morire per la verità: questa è una verità, ch’io ho albergata in me, della quale non se ne può dare testimonio se non morti". E con queste parole sale sul rogo; ma proprio mentre stanno per dar fuoco, ecco che arriva un messo dei Priori a fare un ultimo tentativo, per persuaderlo a smentirsi e così salvargli la vita. Ma egli dice di no. E uno degli armigeri, di fronte a questa fermezza, domanda: "ma dunque costui ha il diavolo addosso?"; al che l'altro armigero, nel dar fuoco, risponde (e par di sentire la sua voce strozzato dal pianto): "Forse ci ha Cristo".
Per questo, signori Giudici, voi avete visto le "correnti di pensiero", che in questo momento sono vicine a Danilo, sfilare in quest’aula a testimoniare. Esse non sono arrivate qui per esercitare su di voi pressioni o intromissioni sulla vostra coscienza intemerata e fiera: sono venute soltanto per testimoniare la loro solidarietà a Danilo. Ma questa solidarietà della cultura italiana per Danilo Dolci è un fatto, che voi non potete ignorare; siete anche voi uomini del nostro tempo, e anche voi sentite il dovere di valutarle, di spiegarle storicamente.
Come si può spiegare questa solidarietà? Certamente voi avete avvertito nelle parole di questi testimoni non soltanto un senso di solidarietà e quasi di complicità con Danilo, ma altresì un senso più profondo, quasi direi di umiliazione e di contrizione di questa cultura: per aver tardato tanto ad accorgersi di questi dolori; per aver atteso, prima di accorgersi, che fosse Danilo a dare l'esempio.
Il carattere singolare ed esemplare di Danilo Dolci e proprio qui: di questo uomo di cultura, che per manifestare la sua solidarietà ai poveri non si è accontentato della parola parlata o scritta, dei comizi, degli ordini del giorno e dei messaggi; ma ha voluto vivere la loro vita, soffrire la loro fame, dividere il loro giaciglio, scende nella loro forzata abiezione per aiutarli a ritrovare e a reclamare la loro dignità e la loro redenzione.
Questa è la singolarità di Danilo: qualcuno potrebbe dire l'eroismo; qualcun altro potrebbe anche essere tentato di dire la santità.
Qui e fuori di qui siamo in molti a pensare e a ripetere che la cultura, se vuol essere viva e operosa, qualcosa di meglio dell'inutile e arida erudizione, non deve appartarsi dalle vicende sociali, non deve rinchiudersi nella torre d'avorio senza curarsi delle sofferenze di chi batte alla porta di strada. Tutto questo lo diciamo e lo scriviamo da decenni; ma tuttavia siamo incapaci di ritrovare il contatto fraterno con la povera gente. Siamo pronti a dire parole giuste; ma non sappiamo rinunciare al nostro pranzo, al nostro comodo letto, alla nostra biblioteca appartata e tranquilla. Tra noi e la gente più umile resta, per quanto ci sforziamo, come uno schermo invisibile, che ci rende difficile la comunicazione immediata. Il popolo ci sente come di un altro ceto: sospetta che questa fraternità di parole sia soltanto oratoria.
Per Danilo no. L'eroismo di Danilo è questo: dove più la miseria soffoca la dignità umana, egli ha voluto mescolarsi con loro e confortarli non con i messaggi ma con la sua presenza; diventare uno di loro, dividere con loro il suo pane e il suo mantello, e chiedere in cambio ai suoi compagni una delle loro pale e un po' di fame.
Questo intellettuale triestino, che se avesse voluto avrebbe potuto costruirsi in breve, coi guadagni del suo lavoro di artista, una vita brillante e comoda in qualche grande città e una casa piena di quadri e di libri, è andato a esiliarsi a Partinico, nel povero paese rimasto impresso nei suoi ricordi di bambino, e si è fatto pescatore affamato e spalatore della trazzera per far intendere a questi diseredati, con la eloquenza dei fatti, che la cultura è accanto a loro, che la sorte della nostra cultura è la loro sorte, che siamo, scrittori e pescatori e sterratori, tutti cittadini dello stesso popolo, tutti uomini della stessa carne. Egli ha fatto quello che nessuno di noi aveva saputo fare. Per questo sono venuti qui da tutta Italia gli uomini di cultura a ringraziarlo: a ringraziarlo di questo esempio, di questo riscatto operato da lui, agnus qui tollit peccata di una cultura fino a ieri immemore dei suoi doveri.
Certo, Danilo Dolci non è un personaggio comodo per i commissari di pubblica sicurezza. Io mi immagino i loro discorsi: "In fondo, un brav'uomo. Ma uno scervellato, un seccatore, un piantagrane".
Mi viene in mente una lettera scritta pochi giorni fa dal mio amico Jemolo a una altissima autorità. Dopo avere attestato l'altezza morale di Danilo, egli continuava: "Certo sarà noioso per le autorità costituite; ma pensa quanto lo saranno stati a loro tempo San Francesco o San Bernardino da Siena".
Si, i santi sono noiosi: e in generale, anche senza disturbare santi, è certo che in questa società compressa da una crosta di accomodante scetticismo sono noiosi in generale gli uomini onesti, gli uomini che prendono le cose sul serio. Per chi sta bene e ha la vita facile, sono insopportabili questi importuni che ricordano col loro esempio, fastidioso come un rimprovero vivente, che nel mondo esiste la onestà e la dignità.
Imparai da ragazzo su qualche antologia un episodio della vita di un santo; in questi giorni mi è tornato in mente. Vi confesso che a Firenze, prima di partire per venir qui, invece di consultare i codici per prepararmi a questa discussione, mi sono messo a ricercare nelle vite dei santi il testo preciso di questo episodio: mi pareva di ricordarmi che fosse nella vita di San Filippo Neri ma non l'ho trovato. Forse è nella vita di Don Bosco.
Certo, o l'uno o l'altro, si trattava di un santo: ma finché fu vivo era considerato come un terribile spettatore dei ricchi, alle cui porte andava a battere ogni giorno per chiedere carità per i poveri. A tutti i momenti se lo ritrovavano dinanzi: lì perseguitava con le sue preghiere, fino a che anche i più avari, pur di levarselo di torno, gli davano quello che chiedeva: e lui correva a portare pane agli affamati.
Un giorno andò a bussare alla porta di un signore ricchissimo, ma particolarmente iracondo e prepotente: e tanto insistè, nonostante i ripetuti dinieghi, che questo alla fine, gonfio d’ira, lo investì di ingiurie e lo prese a schiaffi. Il santo stette impassibile a ricevere le percosse senza muoversi, come se fosse il pagamento di una cosa dovuta: senza neanche ripararsi il viso con le mani (forse lo fece per non essere imputato, dal P.M. di quei tempi, di "resistenza"). E alla fine, quando quel prepotente si fu sfogato, riprese candidamente: "sta bene, questi sono per me: il conto torna. Ma ora bisogna riprendere il nostro discorso: bisogna che tu mi dia i denari per i poveri...".
Io mi auguro che il P.M. ritrovi per conto suo il testo originale dove questo episodio è raccontato per esteso. Siamo d'accordo: anche Danilo è un seccatore: per questo gli hanno messo i ferri; per questo lo hanno arrestato; per questo lo hanno trascinato nel fango; per questo lo vorrebbero tenere per altri otto mesi in prigione.
E sia pure. E poi? E i disoccupati di Partinico? E la fame di Partinico? I bambini che muoiono di fame a Partinico? Che darete ad essi? Che parola di speranza di conforto uscirà per essi dalla vostra sentenza?
No, questa non è, onorevole signor P.M., una "comunissima vicenda giudiziaria". Questo non è il processo di Danilo Dolci. Su quella panca degli imputati non c'è lui; altre colpe, altre incurie, altre crudeltà, altri delitti siedono su quella panca: tutti li conosciamo anche voi li conoscete.
Questa non è la causa di Danilo; e neanche di Partinico; e neanche della Sicilia. E’ la causa del nostro Paese: del nostro Paese da redimere e da bonificare.
Si parla tra i giuristi di "bonifica costituzionale"; siate voi, magistrati, gli antesignani di questa bonifica. Nella Maremma della mia Toscana, nelle terre incoltivate che si distribuiscono ai contadini, per poter arrivare a seminare bisogna prima spezzare la crosta di tufo pietroso che vi è depositata da due millenni di alluvioni; per spezzarla occorrono i trattori: e solo così, sotto quella crosta, si trova la terra fertile e fresca, e in essa, ancora intatte le tombe dei nostri padri etruschi.
Bisogna in tutta Italia spezzare nello stesso modo questa crosta di tradizionale feudalesimo e di inerte conformismo burocratico che soffoca la nostra società: e ritrovare sotto la crosta spezzata il popolo vivo, il popolo sano, il popolo fertile, il popolo vero del nostro Paese: e le tradizioni di saggia ed umana equità che esso ha conservato dai lontani millenni.
Vorrei, signori Giudici, che voi sentiste con quale ansia migliaia di persone in tutta Italia attendono che voi decidiate con giustizia, che vuol dire anche con indipendenza e con coraggio questa causa eccezionale: e che la vostra sia una sentenza che apra il cuore della speranza, non una sentenza che ribadisca la disperazione.
Colleghi e amici siciliani, noi siamo venuti in Sicilia, e vi ringraziamo di averci consentito di essere qui al vostro fianco, per dirvi che tutto quello che vi addolora, tutto quello che vi offende, addolora e offende anche noi. Questa vostra angoscia è anche la nostra angoscia: anche noi ci sentiamo bruciare dal vostro sdegno. Vogliamo anche noi prendere sulle nostre spalle, con l'aiuto della Costituzione, il destino del nostro Paese.
Qualche giorno fa, sfogliando un giornale straniero, vi ho letto una notizia dall'Italia che mi ha fatto arrossire. C'era scritto, a proposito di questo processo di Danilo, questo titolo: "In Italia a chi chiede rispetto della Costituzione si nega la libertà provvisoria". Non è vero, non è vero! Signori Giudici, diteci che non è vero! Permetteteci di dire agli stranieri che non è vero!
Voi dovete aiutarci, signori Giudici a difendere questa Costituzione che è costata tanto sangue e tanto dolore voi dovete aiutarci a difenderla, e a far sì che si traduca in realtà.
Vedete, in quest’aula, in questo momento, non ci sono più giudici e avvocati, imputati e agenti di polizia: ci sono soltanto italiani: uomini di questo Paese che finalmente è riuscito ad avere una Costituzione che promette libertà e giustizia.
Aiutateci, signori Giudici, colla vostra sentenza, aiutate i morti che si sono sacrificati e aiutate i vivi, a difendere questa Costituzione che vuol dare a tutti i cittadini del nostro Paese pari giustizia è pari dignità!
Danilo Dolci trascorse circa due mesi nel carcere dell'Ucciardone, essendogli stata negata la liberta' provvisoria per la "spiccata capacita' a delinquere". Al termine del processo fu condannato insieme ai cinque coinputati per invasione di terreni.
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Categorie: calamandrei, danilo dolci, giustizia
venerdì 9 settembre 2011
(Im)possibile
“Chiunque sia animato dal giusto spirito può cancellare dalla parola impossibile le prime due lettere” Lord Baden Powell of Gilwell
Pubblicato da beffatotale alle 16:58 0 commenti
Categorie: baden powell, calcio, citazioni, impossibile, Koh Panyee, thailandia, volonta'
giovedì 8 settembre 2011
Come i treni a vapore
... e mi sogno i sognatori che aspettano la primavera
o qualche altra primavera d’aspettare ancora
tra un bicchiere di neve e un caffè come si deve
quest’inverno passerà ...
o qualche altra primavera d’aspettare ancora
tra un bicchiere di neve e un caffè come si deve
quest’inverno passerà ...
mercoledì 7 settembre 2011
Un po' di dignità
Massimo Gramellini, La Stampa:
Il mio premier è Simone Pianigiani, c.t. della nazionale di pallacanestro che, sotto di 21 punti contro Israele, infligge alla sua squadra di talentuosi molluschi una strigliata universale. «Bisogna giocare con un po’ di dignità! Con un po’ di anima! Facciamo a cazzotti, almeno. Ma che czz avete dentro?». Le parolacce di solito mi danno fastidio, ma stavolta mi hanno messo i brividi. E non solo a me: lo sfogo di Pianigiani è uno dei video più cliccati della Rete. Che czz abbiamo dentro? Il problema è tutto lì. Siamo un Paese meraviglioso ed è inutile che vi elenchi i nostri pregi, che sono sempre stati uno in più dei nostri difetti. Siamo sopravvissuti a lanzichenecchi e venditori di tappeti perché a un passo dal baratro abbiamo sempre trovato la mossa del cavallo, lo scatto di dignità. Noi siamo il Gassman debosciato della «Grande Guerra». Quello che davanti all’ufficiale tedesco che ironizza sulla vigliaccheria degli italiani, alza la testa e gli fa: «Allora, visto che parli così, mi te disi propi un bel nient». E pur di non dargliela vinta si fa uccidere, che czz.
Ora, non dico tanto. Però un po’ di anima, di dignità. La classe dirigente ne è priva. Ma noi? Siamo disposti a smetterla di considerarci pedine impotenti di un gioco incomprensibile per riappropriarci del nostro destino? A svegliarci dal torpore lamentoso degli schiavi e a lottare con orgoglio per quello in cui crediamo? Nulla è inarrestabile, neanche il declino. Ci sarà un tempo per ricordarsi di aver avuto paura. Ma non è questo il tempo. Ora bisogna dare tutti qualcosa in più, amare questa comunità e portarla in salvo. Facciamo a cazzotti con la rassegnazione, almeno.
mercoledì 31 agosto 2011
martedì 23 agosto 2011
La ricerca perduta
Alla fine anche gli ultimi nodi sono venuti al pettine. In un solo anno, tra il 2008 e il 2009, la produzione scientifica dell’Italia è crollata del 22,5% passando da 52.496 articoli pubblicati si riviste internazionali con peer review ad appena 40.670. Ponendo fine a una crescita, ininterrotta e senza pari in Europa, che durava da trent’anni. Che aveva consentito alla scienza italiana di mascherare, attraverso la produttività dei singoli (altro che fannulloni) le fragilissime basi del sistema e di assorbire, persino, l’«effetto Cina». È questa, in estrema sintesi, la novità contenuta nell’articolo «Is Italian science declining?» (La scienza italiana è in declino?) che Cinzia Daraio, docente di Economiae organizzazione aziendale all’università di Bologna, e l’olandese Henk Moed del centro di studi scientifici e tecnologici dell’università di Leida, hanno pubblicato sulla rivista, con peer review, «Research Policy», che si occupa, appunto di politica della ricerca. I due ricercatori hanno preso in esame una serie di indicatori bibliometrici dal 1980 al 2009.E hanno constatato come, in questi 30 anni, il sistema di ricerca italiano abbia avuto un incremento quantitativo e qualitativo di produzione senza precedenti. Tra il 2000 e il 2008, in particolare, il numero di articoli scientifici firmati da ricercatori italiani è passato da 32.751 a 52.496:un aumentodel60%ottenuto malgrado il numero di ricercatori sia rimasto sostanzialmente costante e malgrado le risorse siano rimaste sostanzialmente costanti. Quest’incremento ha fatto sì che l’Italia conservasse la sua quota mondiale di produzione scientifica malgrado l’«effetto Cina»: ovvero la perentoria entrata in scena degli scienziati cinesi che ha fatto abbassare la quota di tutti gli altri Paesi. In pratica gli scienziati italiani hanno pubblicato, nel 2008, quasi quanto gli scienziati francesi, pur essendo la metà in termini numerici e pur disponendo di meno della metà delle risorse rispetto ai colleghi d’oltralpe. Ma gli italiani hanno vinto il confronto anche con tutti i loro colleghi europei e del mondo. Secondo i calcoli di Cinzia Daraio ed Henk Moed, infatti, in questi trent’anni i ricercatori italiani hanno aumentato come nessun altro la produttività individuale (il numero di articoli scritti in media da un singolo ricercatore) e si sono imposti come, in assoluto, i più produttivi al mondo. Vincendo la gara anche con gli stakanovisti tradizionali, svizzeri e olandesi in testa. Anche la qualità dei loro lavori è migliorata. Il numero di citazioni per articolo, infatti, ha mantenuto un trend di costante ascesa e, a partire dall’anno 2000, ha superato la media mondiale. Anche se resta inferiore a quella dei ricercatori dei Paesi europei più avanzati. In definitiva, possiamo dire che i ricercatori italiani - che qualcuno si ostina a chiamare fannulloni - sono pochi, ma hanno lavorato per trent’anni come nessuno al mondo, ottenendo il primato assoluto in termini di produttività e una buona sufficienza in termini di qualità. Grazie a questo superlavoro individuale hanno mascherato le debolezze strutturali del sistema ricerca. Che da trent’anni ottiene meno risorse e meno attenzione di quanto non succeda in tutti gli altri Paesi, a economia matura o a economia emergente. Il gigante è cresciuto, ma i suoi piedi sono diventati sempre più piccoli e sempre più argillosi. Ma dopo trent’anni di questo paradosso il sistema non ha retto più. Le risorse e l’attenzione dei governi - in particolare dei governi diretti da Berlusconi - sono ancora diminuite e il gigante è crollato. Non poteva essere diversamente. Con questa anomalia il sistema italiano della ricerca - per utilizzare una metafora cara al professor Pier Giuseppe Pelicci, lo scopritore dei geni dell’invecchiamento - è piombato come nel Medioevo, con qualche castello che ospita la nobiltà, e intorno il deserto della quantità e della qualità. I castelli hanno retto per quanto hanno potuto, molto meglio di quanto si potesse sperare, alla sfida della modernità. Ma alla lunga sono stati costretti ad arrendersi. Ai nuovi barbari, la gran parte interni al Paese. Il sistema ricerca in Italia non regge più. Può reggere l’Italia senza un sistema di ricerca?
Qui il pdf dell'articolo originale
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lunedì 8 agosto 2011
Bignamone
di Lapo Pistelli, su Facebook:
Per la maggioranza dell’opinione pubblica, “globalizzazione” significa che oggi viaggiare costa meno di ieri, che le merci sono prodotte prevalentemente in Asia e sono più economiche, che l’informazione e la rete hanno reso il mondo al tempo stesso più grande (del ristretto mondo di ieri) ma anche più piccolo (cioè più facile da conoscere).
Tutto vero. Ma si tratta di effetti, fra i tanti, della definizione vera della globalizzazione. Che è altra cosa.
La globalizzazione è la fuoriuscita dell’economia dalla sfera di dominio della politica, la sua progressiva autonomizzazione. Sembra una definizione tecnica e priva di conseguenze ma è proprio l’esatto contrario. La globalizzazione non arriva per caso; essa è figlia naturale di fatti e di scelte politiche, due in particolar modo: la caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda che ingessava il mondo, e gli accordi di libero commercio del WTO.
Dalla prima delle due date, dal 1989, il prodotto interno lordo del mondo si è moltiplicato per 3, il volume degli scambi commerciali si è moltiplicato per 25, quello degli scambi finanziari addirittura per 80. Già quest’ultimo dato dovrebbe dire molto di quanto sta accadendo, e cioè – all’interno della sfera dell’economia – del golpe della finanza sull’economia reale, del dominio della ricchezza di carta, della ricchezza della matematica su quella dei beni e dei servizi che si possono vedere, toccare, consumare.
L’economia reale – per carità – si è appoggiata molto all’economia finanziaria; le famiglie hanno chiesto denaro in prestito per finanziare mutui immobiliari e consumi privati, le aziende hanno fatto ricorso al mercato borsistico per finanziare nuove idee e investimenti imprenditoriali, gli Stati hanno dilatato il loro debito sovrano per pagare stipendi, costruire infrastrutture, erogare servizi ai cittadini.
Ma c’è dell’altro, purtroppo. Infatti, sul mercato finanziario, solo per ricordare un esempio recente le banche che avevano molti clienti con mutui hanno impacchettato il rischio di quei mutui in nuovi prodotti finanziari a loro volta collocati sul mercato. E altri ancora hanno re-impacchettato quei prodotti “derivati” in altri prodotti, aggiungendoci dentro altri ingredienti, qualche titolo buono e qualche altro meno buono ma ben mescolato e dunque poco riconoscibile. Si è proceduto così, scatola cinese dentro scatola cinese, con un tasso crescente di rischio su quegli investimenti ed un buio altrettanto crescente sul contenuto reale di quel nuovo prodotto. Il seguito è tristemente noto: quando questa fragile impalcatura è crollata rovinosamente e si è scoperto (ma davvero non si sapeva prima?) che si trattava in realtà di carta senza valore, di titoli spazzatura, qualcuno si è interrogato su chi dovesse esercitare il controllo e soprattutto su chi avesse “certificato” quei prodotti.
Ed ecco planare nel mondo di noi terrestri le mitiche agenzie di rating. Le prime tre agenzie americane – Moody’s, Standards and Poor, Fitch – hanno il 90% del mercato, sono possedute da privati e con i propri comunicati decretano la “classificazione” di un bilancio societario, di un debito sovrano, di una emissione di nuovi titoli.
Le stesse agenzie di rating che avevano emesso giudizi di affidabilità su Lehman Brothers o AIG – qualcuno fallito, qualcun altro salvato a suon di miliardi di dollari – sono quelle che da mesi decidono concretamente (poiché influenzano gli investitori) con i propri comunicati sul debito greco o su quello irlandese o adesso su quello italiano se governi e parlamenti devono adottare misure straordinarie. Misure, ovviamente, che per fronteggiare oneri di indebitamento futuro che paghino il nuovo rischio del “mercato” devono nel frattempo tagliare prestazioni reali, salari, pensioni, servizi.
Vi ricordate la definizione della globalizzazione ? L’autonomizzazione dell’economia dalla politica. Dove è finita allora la sovranità ? A chi appartiene ? Al popolo che la esercita nelle forme definite dalla Costituzione o alle analisi dei doppiopetti grigi nascosti dietro le vetrate dei grattacieli di Standard and Poor ? Siamo certi che quelle analisi non servano altre logiche e altri padroni ?
All’annuncio del declassamento del debito americano - un’operazione che costerà circa 200 miliardi di dollari fra minori spese o maggiori tasse per finanziare il costo aggiuntivo del debito – l’economista Paul Krugman ha tuonato sul NYT “E’ una decisione vergognosa non perché l’America sia solida, ma perché queste persone non sono nella posizione di giudicare”.
Din don dan.
Qualcuno si era posto la stessa domanda quando la speculazione aveva attaccato l’economia greca o quella irlandese o quella portoghese ?
Non ho purtroppo il potere di fermare questa giostra ma so che c’è differenza fra l’abbattimento delle frontiere politiche e tecnologiche che consentono nel mondo la libera circolazione di idee, persone, beni, servizi e capitali e questa maionese impazzita che permette a dei simpatici giovanotti di vendere on line algoritmi di rischio scambiati per ricchezza salvo poi fare dei botti a 9 zeri senza assumersi alcuna responsabilità.
Un’altra parolina sul conformismo dominante, sui diti che indicano la luna e…..
Abbiamo talmente criticato la politica economica del governo italiano in questi due anni da diventare rauchi: la crisi negata, la balla che era tutta una questione di ottimismo, l’invito a consumare, l’affermazione che avevamo già la crisi alle spalle, che stavamo meglio di altri. Poi ieri l’altro, il commissariamento per telefono da parte di Stati Uniti, Francia e Germania, con l’odiata Bruxelles a fare da guardiana alla serietà delle nostre promesse, pena il mancato intervento della Banca Centrale Europea ad acquistare i nostri titoli pubblici.
Come Cassandre infelici per il tempo perduto dicamo “noi lo avevamo detto”: la crisi c’era, pioveva e noi non aprivamo l’ombrello. Così abbiamo perso 6 punti di Pil in tre anni, cioè il doppio degli altri, e ne abbiamo recuperato poco meno di due mentre i partner europei stanno ricominciando a crescere. Più rapidi a cadere, noi italiani, più lenti a risalire. Ma nel Paese imperava il bunga bunga, il processo lungo, la prescrizione breve, il minuetto di Scilipoti.
Mentre l’opposizione diceva queste cose – eccome se le diceva, tutti i giorni – i due principali quotidiani italiani dell’establishment moderato hanno dedicato buona parte del mese di maggio a dibattere il tema della ripresa tramite, udite udite, l’abbattimento delle tasse, uno dei tanti specchietti per le allodole buttati dal ministro dell’economia fra un piano Sud e un piano Casa, sicuramente uno specchiettone che avrebbe richiesto qualche decina di miliardi di disponibilità per sostenere lo squilibrio iniziale in attesa dei presunti benefici.
Sono passati solo 60 giorni e le stesse pensose barbe sono passate dalla discussione sull’abbattimento delle tasse a quella sul rischio del default, due temi che implicano scenari economici antitetici ma che vengono trattati con la stessa disinvoltura e – mi permetto – talvolta con la stessa approssimazione.
L’establishment di questo Paese, è evidente, non ha alcuna voglia di andare a votare. Ha scaricato platealmente Berlusconi (dopo che gli ambienti internazionali lo avevano già fatto) ma non si fida dell’alternativa. Così ricomincia a giocare con i governi tecnici, con l’apertura di un nuovo commissariamento della politica che, archiviato Berlusconi, rimetta in moto il meccano dei partiti e delle alleanze. E’ lo stesso film che vedo andare in scena dal 1994. Talvolta il copione sembra riuscire, talvolta meno. C’è sempre un deus ex machina all’orizzonte variamente evocato (oggi Monti o, come spererebbe lui, Montezemolo) e c’è sempre casualmente – con la complicità miope di pezzi di qualunquismo di sinistra – una campagna stampa che improvvisamente attacca il Parlamento, i politici, i loro privilegi. Molte cose vere per carità ma che stranamente diventano di stringente attualità quando serve distrarre l’opinione pubblica dalla vera partita che si sta giocando. In questo teatro delle ombre cinesi, fra una cortina fumogena e un falso bersaglio, mi permetto di far notare il doppiopesismo che accompagna la vicenda del Ministro dell’Economia: il terrore dell’establishment di aprire una fase nuova senza la certezza di governarla ancora una volta obbliga a perdonare comportamenti (mi riferisco alle vicende dell’on Milanese, consigliere del Ministro) che non sarebbero stati perdonati a nessuno. Ma, si sa, l’Italia è in Paese generoso. E tutti hanno qualcosa da farsi perdonare, prima o poi.
lunedì 25 luglio 2011
Facevo le corse podistiche
... ed oggi guarda come sono finito, trentaquattrenne stordito ...
Gerardo mi ha spedito il CD, "Sconosciuti e imperfetti", quasi scusandosi di dovermi chiedere un piccolo contributo. Mai contributo fu meglio speso: anche se Gerardo e' ancora sconosciuto, e certo come tutti imperfetto, le 12 tracce sono invece assolutamente godibili, a tratti geniali.
Leo e' gia' un suo fan sfegatato: la prime due tracce, tra cui quella sopra, le avro' sentite mille volte di seguito, pena una bizza paurosa...
mercoledì 6 luglio 2011
Giustificazioni
La giustificazioni del Ministro della Repubblica Roberto Calderoli, interrogato sulla norma salva-Mediaset inserita di soppiatto nella manovra economica, e' da guinnes dei primati. Per evitare di essere accusato di aver favorito un'azienda del premier con l'ennesima norma ad-personam, si scusa dicendo di non aver neppure letto la manovra econimica appena approvata dal suo Consiglio dei Ministri.
Al cospetto, il compagno al liceo che ha giustificato l'assenza per tre volte di seguito col funerale della nonna era un principiante...
Al cospetto, il compagno al liceo che ha giustificato l'assenza per tre volte di seguito col funerale della nonna era un principiante...
mercoledì 22 giugno 2011
Storia e leggenda del lanciatore
...e mio padre m'insegnò che i venti cambiano sempre
e ti imbrogliano le dita e non c'è memoria dei tiri precedenti
perché ogni volta è una scommessa infinita...
e ti imbrogliano le dita e non c'è memoria dei tiri precedenti
perché ogni volta è una scommessa infinita...
venerdì 10 giugno 2011
Magari
Magari i referendum non raggiungono il quorum come sempre negli ultimi 16 anni, il Governo tira ancora per un anno o due mentre Bersani litiga con Vendola che litiga con Renzi che litiga con Di Pietro che litiga con sè stesso, le leggi non cambiano, la nostra vita nemmeno (quella cambia poco anche se vincono i si, ma lasciamo stare il merito dei referendum, ne hanno già scritto).
Però stavolta sembra diversa...
Ho visto fare campagna per il voto a preti che prima di parlare di politica si farebbe sbattezzare, ho visto manifesti per i referendum dentro pub da fighetti che se ci porti dentro un volantino col simbolo di un partito si distrugge per autocombustione, ho ricevuto email VotateVotateVotate da chi a votare ci va con la frequenza con cui l'Italia vince i mondiali di Calcio, ma soprattutto ho visto i marxisti-leninisti invitare a non astenersi. Roba da far crollare tutte le certezze.
Ci pensate che roba?
Mandare via quello che voleva l'elezione diretta del premier con una dimissione diretta del premier, il leader della demagogia e degli slogan populisti battuto da uno slogan demagogico (e falso) come "vogliono privatizzare l'acqua", il cavaliere delle emozioni sconfitto da chi cavalca l'emozione antinuclearista su un quesito che col nucleare ha ormai ben poco a che fare.
Sarebbe una nemesi storica su cui scrivere pagine e pagine e pagine.
Magari non succede, ma lasciatemi sognare fino a lunedì...
Ho visto fare campagna per il voto a preti che prima di parlare di politica si farebbe sbattezzare, ho visto manifesti per i referendum dentro pub da fighetti che se ci porti dentro un volantino col simbolo di un partito si distrugge per autocombustione, ho ricevuto email VotateVotateVotate da chi a votare ci va con la frequenza con cui l'Italia vince i mondiali di Calcio, ma soprattutto ho visto i marxisti-leninisti invitare a non astenersi. Roba da far crollare tutte le certezze.
Ci pensate che roba?
Mandare via quello che voleva l'elezione diretta del premier con una dimissione diretta del premier, il leader della demagogia e degli slogan populisti battuto da uno slogan demagogico (e falso) come "vogliono privatizzare l'acqua", il cavaliere delle emozioni sconfitto da chi cavalca l'emozione antinuclearista su un quesito che col nucleare ha ormai ben poco a che fare.
Sarebbe una nemesi storica su cui scrivere pagine e pagine e pagine.
Magari non succede, ma lasciatemi sognare fino a lunedì...
Referendum
Per la cronaca, Beffatotale votera' Si No Bianca Si
Pubblicato da beffatotale alle 10:39 6 commenti
Categorie: acquaformosa, berlusconi, delirio, nucleare, referendum
mercoledì 18 maggio 2011
lunedì 2 maggio 2011
Miracolo!
"L’eliminazione da parte delle forze Usa dello sceicco del terrore Bin Laden all’indomani della beatificazione di Giovanni Paolo II puo’ essere letta come un nuovo enorme miracolo per il mondo regalato dal Papa piu’ amato che tanto tuono’ contro la rete del terrore in particolare ammonendola con le parole ‘il male e’ accompagnato sempre dal bene’, volendo con cio’ affermare che dietro il male spuntano sempre il bene e la giustizia universale,come dimostrato in queste ore".Lo afferma Michaela Biancofiore del Pdl in una dichiarazione ribattuta dall’Ansa.
Rovescera' i potenti dai troni...
...ma per adesso sono tutti in prima fila, compreso il "contestato" Mugabe
«Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato i ricchi a mani vuote.
Ha soccorso Israele, suo servo,
ricordandosi della sua misericordia,
come aveva detto ai nostri padri,
per Abramo e la sua discendenza, per sempre»
(Lc 1,51-55)
venerdì 29 aprile 2011
Cattive leggi, scritte male
«Devono essere immediatamente scarcerati gli extracomunitari clandestini che sono stati arrestati in flagranza, per violazione dell’articolo 14 comma 5 della legge sull’immigrazione 285/98 così come modificata nel 2009 dal cosiddetto pacchetto-sicurezza» . Si tratta — secondo un calcolo empirico fatto dal giudice — nella sola Milano, di tre quattro persone al giorno, una ventina a settimana e quindi circa un migliaio l’anno. E i processi? «Devono essere tutti chiusi con formule assolutorie»
Una sentenza della Corte di Giustizia Europea ha restituito la libertà a un cittadino tunisino di nome Hassen El Dridi condannato a un anno di reclusione in base al nuovo reato di clandestinita' inventato dal Governo Italiano e ha cancellato quella stessa legge con effetto immediato. A luglio del 2010 la Corte Costituzionale aveva gia' dichiarato illegittima l’aggravante di clandestinità.
lunedì 25 aprile 2011
25 Aprile 2011
Lo avrai
camerata Kesselring
il monumento che pretendi da noi italiani
ma con che pietra si costruirà
a deciderlo tocca a noi.
Non coi sassi affumicati
dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio
non colla terra dei cimiteri
dove i nostri compagni giovinetti
riposano in serenità
non colla neve inviolata delle montagne
che per due inverni ti sfidarono
non colla primavera di queste valli
che ti videro fuggire.
Ma soltanto col silenzio dei torturati
più duro d'ogni macigno
soltanto con la roccia di questo patto
giurato fra uomini liberi
che volontari si adunarono
per dignità e non per odio
decisi a riscattare
la vergogna e il terrore del mondo.
Su queste strade se vorrai tornare
ai nostri posti ci ritroverai
morti e vivi collo stesso impegno
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama
ora e sempre
RESISTENZA
camerata Kesselring
il monumento che pretendi da noi italiani
ma con che pietra si costruirà
a deciderlo tocca a noi.
Non coi sassi affumicati
dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio
non colla terra dei cimiteri
dove i nostri compagni giovinetti
riposano in serenità
non colla neve inviolata delle montagne
che per due inverni ti sfidarono
non colla primavera di queste valli
che ti videro fuggire.
Ma soltanto col silenzio dei torturati
più duro d'ogni macigno
soltanto con la roccia di questo patto
giurato fra uomini liberi
che volontari si adunarono
per dignità e non per odio
decisi a riscattare
la vergogna e il terrore del mondo.
Su queste strade se vorrai tornare
ai nostri posti ci ritroverai
morti e vivi collo stesso impegno
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama
ora e sempre
RESISTENZA
P. Calamandrei
Pubblicato da beffatotale alle 14:50 0 commenti
Categorie: calamandrei, citazioni, gang, musica, resistenza
domenica 24 aprile 2011
Pasqua 2011
[...] Prendo spunto, questa notte, da quello che mi ha scritto un amico al quale è da poco nato il secondo figlio: non basta amarlo, questo bambino; occorre lottare perché possa davvero vivere in un mondo più bello. Un mondo nel quale si smetta una buona volta di acconsentire ogni giorno all’egoismo dei benpensanti, beati soltanto delle proprie ricchezze, si dica “basta” alla volgarità e alla stoltezza degli uomini di potere privi ormai di ogni decenza, si smetta di accettare passivamente la quotidiana banalità del male, che inghiotte gli uomini più deboli e più poveri in una tragedia dietro l’altra senza sosta, nell’indifferenza di tutti. Un mondo che sia davvero umano.
La Pasqua è credere che in questo buio del mondo, sull’orlo dell’abisso, è ancora possibile sperare; la luce è ancora accesa, nella notte. E’ possibile essere liberi perché è possibile amare. Ed è possibile amare perché Cristo è risorto e ha liberato il mondo dalla paura della morte che ci schiaccia e che ci impedisce di vivere e di amare. Andate, dunque, e portate ai discepoli questo annuncio: Lui è davvero risorto...
E ancora: Gesù ci precede in Galilea, ovvero sta davanti a noi, ci chiama a camminare verso di lui, come comunità di cristiani, anche in questa piccola parrocchia. Noi non siamo né migliori né peggiori di altri; solo una comunità cristiana che prova a credere che il Signore è sempre davanti a noi. Ogni Pasqua può così diventare una tappa in questa grande avventura della vita, verso un mondo reso libero per amare.
Don Luca, Pasqua 2011
La Pasqua è credere che in questo buio del mondo, sull’orlo dell’abisso, è ancora possibile sperare; la luce è ancora accesa, nella notte. E’ possibile essere liberi perché è possibile amare. Ed è possibile amare perché Cristo è risorto e ha liberato il mondo dalla paura della morte che ci schiaccia e che ci impedisce di vivere e di amare. Andate, dunque, e portate ai discepoli questo annuncio: Lui è davvero risorto...
E ancora: Gesù ci precede in Galilea, ovvero sta davanti a noi, ci chiama a camminare verso di lui, come comunità di cristiani, anche in questa piccola parrocchia. Noi non siamo né migliori né peggiori di altri; solo una comunità cristiana che prova a credere che il Signore è sempre davanti a noi. Ogni Pasqua può così diventare una tappa in questa grande avventura della vita, verso un mondo reso libero per amare.
Don Luca, Pasqua 2011
giovedì 21 aprile 2011
Il ministro senza vergogna e senza portafoglio
Copio e incollo dal blog di Marco Cattaneo l'incredibile presa per il culo dei progetti bandiera che avrebbero "l’obiettivo di allineare la spesa italiana per la Ricerca alla media europea".... vorei poter pagare il mutuo con la stessa tecnica del ministro, ovvero senza mettere un centesimo. Come al solito dietro il presunto riallineamento ai parametri europei si nasconde l'ennisimo taglio al finanziamento ordinario alla ricerca.
Martedì, a Ballarò, il ministro Mariastella Gelmini ha vantato – di passaggio – l’approvazione del Piano Nazionale della Ricerca “che prevede un miliardo e quattrocento milioni di euro da spendere nei prossimi tre anni”.
Il PNR 2011-2013, in effetti, era stato presentato il giorno prima, con due tavole rotonde dalla composizione almeno in parte imbarazzante.
Al di là della presenza dei presidenti dei maggiori enti pubblici di ricerca (che dovrebbe essere un’ovvietà, ma non c’è da scommetterci), brillano per competenza l’introduzione di Maurizio Gasparri e la moderazione delle tavole rotonde, affidata a Bruno Vespa, capace di passare con la consueta eleganza dall’epigenomica alla comunicazione con l’Aldilà (per chi si fosse perso il tema della puntata di Porta a Porta di ieri).
So che era presente qualche collega della stampa, ma noi non siamo stati invitati. E, data la parata di premi Nobel, c’è quasi da vantarsene.
Allora, per curiosità, siamo andati a vedercelo il Programma Nazionale della Ricerca sbandierato dal Ministro come un’azione che avrebbe “l’obiettivo di allineare la spesa italiana per la Ricerca alla media europea, mediante la realizzazione delle Azioni previste e dei Progetti Bandiera identificati con il contributo della comunità scientifica ed imprenditoriale” (lo si legge a pagina 76; il PDF potete scaricarlo qui).
E qui ci è venuto un primo sospetto. I 14 Progetti Bandiera (da pagina 82 in poi) assommano a 1772 milioni di euro (1,77 miliardi, a beneficio del ministro) in tre anni o più, e , come la signora Gelmini ha sottolineato davanti alle telecamere, si parla di 1,4 miliardi da spendere in tre anni. Questa cifra è pari, complessivamente, all’1 per mille del PIL 2010, che diviso per tre anni fa 0,33 per mille all’anno. E come farebbe, di grazia, ad “allineare la spesa italiana per la ricerca alla media europea”?
Ma questo è niente. Se si vanno a leggere i dettagli del finanziamento dei singoli Progetti Bandiera, si fanno scoperte istruttive. La quasi totalità dei fondi, infatti, proviene dal FOE, il Fondo ordinario per il finanziamento degli enti e istituzioni di ricerca, oppure dallo stanziamento ordinario dell’ASI, l’Agenzia spaziale italiana. Insomma, se mai si faranno i Progetti Bandiera, non ci sarà un centesimo in più, per la ricerca, saranno semplicemente privilegiati a danno di tutti gli altri progetti di ricerca, cui verranno sottratti i fondi provenienti dal fondo ordinario.
Di fatto, il PNR si configura così come una plateale ingerenza nelle scelte degli enti di ricerca, in barba all’autonomia sancita per legge e caldamente suggerita dal buon senso a chi con fatica è riuscito a terminare il suo curriculum di studi.
Non crederete che sia finita qui, vero? A pagina 74 del notevole documento (notevole se non altro per il bassissimo rapporto contenuti/numero di pagine) prodotto dal ministro e sottoscritto dal Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica, c’è una tabellina illuminante. Che spiega a che fondi il ministro e le Sorelle Bandiera, pardon i Progetti, dovrebbero attingere.
806 milioni di euro, si vede, saranno sottratti al Fondo ordinario. Complessivamente il 15 per cento del totale. E se considerate che nel fondo sono compresi i salari dei ricercatori e degli altri dipendenti… Avete scommesso? Risposta esatta, non avanzano che le briciole. Ovvero, l’approvazione dei Progetti Bandiera cancella di fatto tutti gli altri progetti di ricerca degli enti pubblici italiani.
268 milioni verranno dai Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale, retrocessi a tavolino in serie B.
Poi ci sono un sacco di altri fondi, ma sono sulla carta e lì resteranno, potete scommetterci. Per esempio i quasi 3 miliardi dei PON. I PON sono fondi europei, e non si possono usare per quello che ci pare. Mentre nei FAR, guarda che caso, ci sono fondi per le aree depresse. Il resto sono spiccioli…
Insomma, dietro l’altisonante Programma Nazionale della Ricerca 2011-2013 non c’è un centesimo, se non quelli spesi per stamparlo e presentarlo.
Come dimostrano i Progetti di Interesse, illustrati da pagina 89 in poi, che brillano per chiarezza espositiva e per trasparenza economica: la copertura finanziaria è, secondo i casi, “da definire” o “da individuare”.
Poi, nel Programma Nazionale della Ricerca (le maiuscole non sono mie), oltre a mancare i quattrini, è assente ingiustificata anche la trasparenza. Il ministero, alla pagina web dove si può scaricare il file PDF, sostiene che il PNR sia “l’esito di una ampia consultazione che ha coinvolto la comunità scientifica e accademica, le forze economiche, la rappresentanza della Conferenza Stato Regioni e dell’Osservatorio sulle politiche regionali per la ricerca e l’innovazione, nonché tutte le Amministrazioni dello Stato competenti per materia”.
Ma non dice chi. Chi, come, dove, su quali basi. Quando si approvano progetti di ricerca di portata multimilionaria, come i nostri Progetti Bandiera, nel resto del mondo si istituiscono commissioni che studiano il progetto, la fattibilità, i tempi, e pure i costi, perché il denaro pubblico non vada sprecato. Perché può darsi che io preveda di spendere 10 per un progetto per cui potrei spendere 8. O magari invece 12, e allora bisogna essere pronti a trovare anche gli altri due euro. Per questo qualcun altro è incaricato della revisione e della valutazione.
Qui, invece, va diversamente. Non mi risulta che siano stati consultati né l’Anvur né il Civr, ossia i due organismi che dovrebbero valutare la ricerca. E non sono stati consultati per una ragione semplicissima. Perché non esistono: la prima non si è ancora insediata, mentre il secondo è stato sciolto, in attesa che si insedi la prima.
Una nota penosa: l’ultima valutazione della ricerca italiana risale al triennio 2001-2003.
Tutto questo sarebbe sufficiente a far vergognare un qualsiasi ministro europeo della ricerca. Tranne il nostro.
P.S. Il PNR è stato presentato e approvato nel silenzio indifferente o colpevole dei mezzi di informazione. Eppure si sta parlando del futuro del paese. O forse sono io che mi illudo.
Pubblicato da beffatotale alle 23:07 0 commenti
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martedì 12 aprile 2011
Gagarin
Cinquant'anni fa, il 12 Aprile 1961, un uomo per la prima volta guardava la terra da fuori. Jurij Alekseevič Gagarin, metalmeccanico e pilota di 27 anni, alle ore 9.07 di Mosca parti' all'interno della navicella Vostok 1 (Oriente 1) comunicando via radio la celebre frase поехали! (pojechali - "siamo partiti"). Compì un'intera orbita attorno alla Terra, raggiungendo un'altitudine massima di 302 km viaggiando a una velocità di 27.400 km/h. Durante il volo, guardando dalla navicella ciò che nessuno aveva mai visto prima, comunicò alla base che "la Terra è blu [...] Che meraviglia. È incredibile". L'altra frase famosa, "Non vedo nessun Dio quassu'" gli fu messa in bocca dalla propaganda Russa. Dopo 88 minuti di volo, alle 10.20 ora di Mosca, la navicella atterro' in un campo vicino alla città di Takhtarova, mentre Gagarin espulso in volo veniva paracadutato a terra. Fu accolto da due contadini come un nemico arrivato dallo spazio, ma una volta riconosciuto dopo aver mostrato i documenti fu accolto come un eroe in Russia e nel mondo (e a ragione, visto che prima di lui avevano viaggiato solo una cagnetta e dei manichini), apri' la strada alla conquista dello spazio e alla corsa alla luna tra USA e URSS: dopo la batosta dello Sputnik e della Vostok, gli americani si rifecero con la conquista del nostro satellite. Io me lo ricordo soprattutto per un vecchio libro degli anni '60 che avevo da piccolo sui razzi e i satelliti, dove campeggiava la foto qui accanto dell'intrepido Russo pronto al balzo verso l'ignoto...
Pubblicato da beffatotale alle 12:27 1 commenti
Categorie: anniversario, astro, gagarin, spazio
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