Pugile vincente, ma segnato dai duri colpi ricevuti, rivivevi la tua strana avventura. Te ne sgravavi a brandelli. E nel corso del tuo racconto notturno, io ti scorgevo, in cammino, senza piccozza, senza corde, senza viveri, mentre scalavi valichi di quattromilacinquecento metri o avanzavi lungo pareti verticali, con piedi, ginocchia e mani sanguinanti, a quaranta gradi sotto zero.
Svuotato a poco a poco di sangue, di forze, di ragione, procedevi con una cocciutaggine da formica, tornando sui tuoi passi per aggirare l’ostacolo, rimettendoti in piedi dopo i capitomboli, o risalendo le discese che portavano solo a un abisso, senza concederti, insomma, alcun riposo, poiché dal letto di neve non ti saresti rialzato. Quando scivolavi, infatti, dovevi affrettarti a rimetterti in piedi, per non essere tramutato in pietra. Il freddo ti pietrificava d’istante in istante, e un attimo di riposo in più assaporato dopo una caduta ti costringeva a far funzionare muscoli inerti, per rialzarti.
Resistevi alle tentazioni. “Nella neve”, mi dicesti, “si perde totalmente l’istinto di conservazione. Dopo due, tre, quattro giorni che si cammina, non si desidera più altro che il sonno. Lo desideravo. Ma mi dicevo: mia moglie, se mi crede vivo, mi crede in cammino; i compagni mi credono in cammino; hanno fiducia in me, tutti quanti; e se non cammino sono un mascalzone.”
E camminavi. E, con la punta del temperino, allargavi ogni giorno un po’ più lo sdrucio delle scarpe affinché i tuoi piedi, che gelavano e si gonfiavano, ci potessero stare. “Sai, dal secondo giorno in poi, il lavoro più grosso fu quello di vietarmi di pensare. Soffrivo troppo, ero in una situazione troppo disperata; per avere il coraggio di camminare non dovevo considerarla. Per sfortuna, non avevo un buon dominio sul cervello, che girava come una turbina. Avevo però ancora la possibilità di sceglierli le immagini. Lo imballavo su un film, su un libro. E il film o il libro mi scorreva davanti agli occhi a tutta forza. Poi mi riconduceva alla situazione in atto. Immancabile. Ed io lo lanciavo su altri ricordi...”
Una volta, però, steso bocconi nella neve dopo una caduta, rinunciasti a rialzarti. Eri come il pugile che, svuotato ad un tratto d’ogni passione, ode i secondi cadere in un mondo estraneo, ad uno ad uno, fino al decimo ch’è senza appello.
“Ho fatto ciò che potevo e non ho speranze, perché ostinarmi in questo martirio?”. Non avevi che da chiudere gli occhi e la pace sarebbe scesa sull’universo. Rocce, ghiacci e nevi si sarebbero cancellati. Appena chiuse quelle palpebre miracolose, niente più colpi, cadute, strappi muscolari, ustioni del gelo, né quel peso di dover trascinare la vita, quando si è costretti ad andare avanti come un bue ed essa diventa più pesante di un carro. Ne sentivi già il sapore, di quel freddo divenuto veleno e che, simile alla morfina, ti colmava ora di beatitudine. La tua vita si rifugiava intorno al cuore. Qualcosa di dolce e prezioso si rincantucciava nel centro di te stesso. La tua coscienza per gradi abbandonava le remote regioni di quel corpo, che, animale saturato di sofferenza, già assumeva l’indifferenza del marmo.
Si placavano anche i tuoi scrupoli. I nostri richiami non ti raggiungevano più, o meglio, ti si tramutavano in richiami di sogno. Rispondevi, felice, con una marcia sognata, con lunghi passi agevoli che ti aprivano senza sforzo le delizie della pianura. Come facilmente scivolavi in un mondo diventato così tenero per te! Decidesti, Guillaumet, avaramente, di negarci il tuo ritorno. I rimorsi sorsero dal sottofondo della coscienza. Certi particolari precisi si mescolarono improvvisamente al sogno. “Pensavo a mia moglie. La mia polizza di assicurazione le avrebbe risparmiato la miseria. Sì, ma le assicurazioni...” In caso di scomparsa, c’è una mora di quattro anni per la morte legale. Questo particolare ti si presentò abbagliante, cancellando le altre immagini. Ora, tu eri steso bocconi su un ripido pendio di neve. Il tuo corpo, col sopraggiungere dell’estate, sarebbe rotolato assieme alla fanghiglia verso uno dei mille crepacci delle Ande. Lo sapevi. Ma sapevi pure che una roccia emergeva, davanti a te, a cinquanta metri: “Ho pensato: se mi rialzo, forse posso raggiungerla: e, se addosso il mio corpo contro la pietra, in estate lo ritroveranno”.
Una volta in piedi, camminasti per due notti e tre giorni. Ma non credevi affatto di arrivare lontano: “Presagivo la fine, da molti indizi. Eccone uno. Ero costretto a sostare, circa ogni due ore, per incidere un po’ di più la scarpa, per frizionarmi con la neve i piedi che si gonfiavano, o semplicemente per far riposare un po’ il cuore. Ma negli ultimi giorni cominciai a perdere la memoria. Dopo che mi ero rimesso in moto da un pezzo, mi si faceva luce: ogni volta, avevo dimenticato qualcosa. La prima, si trattò d’un guanto; ed era grossa, con quel freddo! L’avevo posato davanti a me ed ero ripartito senza raccattarlo. Poi si trattò dell’orologio. Poi del temperino. Poi della bussola. Ad ogni sosta m’impoverivo... “La salvezza sta nel fare un passo. Ancora uno. Il passo è sempre quello, ripetuto...”
“Ti giuro, non c’è bestia che sarebbe mai riuscita a fare quel che ho fatto.” Questa frase, la più nobile ch’io conosca, questa frase, che dà all’uomo il suo posto, che lo onora, che ristabilisce le vere gerarchie, mi tornava in mente. Finisti con l’addormentarti, la coscienza in te fu soppressa; ma al risveglio sarebbe rinata da quel corpo smantellato, gualcito, arso, e l’avrebbe nuovamente dominato. Il corpo, allora, non è più altro che un buon strumento, che un buon servitore. E tu, Guillaumet, sapesti anche esprimere questo orgoglio del buon strumento. “Privo di nutrimento, puoi figurarti se, al terzo giorno di marcia...il cuore, non mi funzionava mica un gran che....Ebbene, su una parete a picco, lungo la quale avanzavo sospeso sul vuoto e scavando buche per punti d’appoggio alle mani, eccoti che il mio cuore si pianta. Esita, riparte. Perde colpi. Sento che se esita un attimo di più, io mollerò. Sto fermo, immobile, ad ascoltarmi dentro. Mai, capisci, mai in aereo mi sono sentito aggrappato così strettamente al motore, come mi sono sentito, in quei pochi minuti, appeso al mio cuore. Gli dicevo: su, fa’ uno sforzo, tenta di battere ancora... Ma era un cuore di buona qualità! Esitava, ma sempre riprendeva... Sapessi com’ero fiero di quel cuore!”
Finivi coll’addormentarti in un sonno affannoso, nella camera di Mendoza in cui ti vegliavo. Ed io pensavo: Guillaumet farebbe un’alzata di spalle, a parlargli del suo coraggio; ma lo si tradirebbe anche celebrando la sua modestia. Egli sta molto più in là di questa virtù mediocre. Alza le spalle, ma per saggezza. Sa che gli uomini non hanno più paura delle cose, una volta che sono accadute e li hanno tirati in ballo. Solo l’ignoto spaventa gli uomini. Ma, per chiunque, cessa di essere ignoto, nell’attimo in cui egli l’affronta. Specialmente se lo considera con tale lucida serietà. Il coraggio di Guillaumet è conseguenza, in primo luogo, della sua rettitudine.
La sua virtù vera non è in questo. La sua grandezza è di sentirsi responsabile. Responsabile di se stesso, del corriere. E dei compagni che sperano, poiché la loro gioia o il loro dolore sono nelle sue mani. Si sente responsabile nei confronti di quanto si va edificando di nuovo laggiù, nel mondo dei vivi, avendo egli il dovere di prendervi parte; e, nei limiti del suo lavoro, si sente un poco responsabile del destino degli uomini.
Appartiene al novero di quegli esseri d’ampia levatura che consentono a coprire col loro fogliame ampi orizzonti. Essere uomo significa appunto essere responsabile. Significa provare vergogna in presenza d’una miserie che pur non sembra dipendere da noi. Esser fieri d’una vittoria conseguita dai compagni. Sentire che, posando la propria pietra, si contribuisce a costruire il mondo. Si vuol confondere uomini simili con i toreri o i giocatori. Si loda il loro disprezzo della morte. Ma del disprezzo della morte non so che farmene. Se esso non ha radice in una responsabilità consapevolmente accettata, è indice unicamente di povertà o d’eccesso giovanile.