Benazir e la speranza dalle donne
A pochi giorni dall'assassinio di Benazir Bhutto, riporto l'editoriale di Vittorio Zucconi apparso su Repubblica di 2 giorni fa. Perche', come diceva padre Vannucci, solo le donne possono "pacificare la terra, conciliare i fratelli nemici, cancellare Caino e far risorgere Abele".
Era stata una donna di colore, Condoleezza Rice, la figlia vittoriosa di una doppia minorità, di genere e di razza, ad architettare il ritorno di Benazir Bhutto in Pakistan per rendere presentabile l´orrido generale Musharraf. Ed è quindi una sconfitta spaventosa per tutte le donne, quell´assassinio, che ha riaffermato ancora una volta una delle più semplici verità universali: è nello status delle donne, nella loro importanza e nella loro autorità che si misurano con precisione infallibile il grado di maturità reale di una nazione e dunque la forza di una democrazia non soltanto rituale. Proprio perché Benazir Bhutto non era una santa né una Giovanna d´Arco senza macchia, ma l´erede di una famiglia che è stata paragonata ai Kennedy per il potere, la ricchezza e la fama niente affatto cristallina, la sua uccisione libera il campo d´osservazione da ogni pretesa di eccezionalità, riducendolo alla sua essenza: chiunque l´abbia uccisa, al Qaeda, i servizi segreti pachistani, i clan rivali, ha visto, correttamente, in lei e soppresso molto più di una nemica politica o di un´insidia grave al potere della cricca Musharraf. Ci ha visto una donna, il detonatore "soft" che avrebbe potuto far saltare la struttura sociale che regge l´arcaica e malsana impalcatura civile di un Islam non riformato, incardinato su un´Arabia Saudita dove alle donne è ancora negato addirittura il semplice diritto di voto. Se fosse stata la setta di Osama bin Laden, il terrorista che si crede prima di ogni altra cosa il custode dell´Islam minacciato dalla secolarizzazione relativista e pagana che viene da Ovest, la morte di Benazir Bhutto sarebbe perfettamente spiegabile con l´incubo che la visione di quella signora, musulmana ma istruita dalle suore di Gesù e Maria a Karachi, laureata negli Usa a Radcliffe e Harvard e poi in Gran Bretagna a Oxford, rappresenta per i neo con islamici e per il loro progetto di riportare la Umma, la comunità dei fedeli, depurata da eresie e devianze, al dominio del mondo. Mentre l´Occidente guarda rabbrividendo all´uranio, al plutonio, ai gas letali e alle armi biologiche come agli strumenti della propria possibile Apocalisse, è la donna l´arma di distruzione di massa che i regimi integralisti guardano con orrore. Nessun esercito straniero potrebbe far saltare la mullocrazia iraniana o la ipocrita oligarchia della Casa di Saud in Arabia come una generazione di donne istruite, indipendenti, forti e, si sarebbe detto un tempo, "liberate". Persino nell´Afghanistan formalmente «democratizzato», i burqa gettati al vento per la gioia delle telecamere, sono trionfalmente tornati, perché i governi passano, ma i padri, i mariti, i fratelli, rimangono. L´immensa fatica e la penosa resistenza che le società europee e americane hanno opposto e ancora oppongono alla presenza non ornamentale e non forzosa delle donne in politica, compresi quegli Stati Uniti dove l´avversione alla "antipatica" Hillary Clinton nasconde l´allergia al pensiero di una femmina "Comandante in Capo", hanno cominciato a frantumarsi in nazioni importanti. Una "cancelliera tedesca" sulla poltrona che fu di Otto Bismarck come una "Madame Presidente" nello studio del generale De Gaulle non avrebbero fatto e non fanno più scandalo, come non fecero scandalo la Thatcher o la Meir. Ma è nella società dove il maschilismo universale si incastra con il presunto dogma religioso che il muro resta insuperabile. Il caso della Bhutto avrebbe potuto far rivivere, senza questo muro dottrinale, gli eventi nelle Filippine, nazione assai poco accusabile di "femminismo"nei primi anni ‘80, quando la Casa Bianca cercò di togliersi l´imbarazzo di un altro alleato impresentabile come Ferdinand Marcos, mandandogli con la propria benedizione Ninoy Aquino, leader del dissenso in esilio. Aquino fu prontamente assassinato dai sicari di Marcos, ma una donna, la vedova, Cory Aquino, seppe raccoglierne il mantello e promuovere la rivoluzione pacifica che spazzò via i Marcos. Non soltanto il suo essere donna non fu handicap. Al contrario, in una società dove il matriarcato soppresso e represso regge la vita di tutti, maschi e femmine seppero riconoscersi in lei e vederla come una promessa, anziché una minaccia alla struttura sociale, prima che al potere politico. Nell´universo musulmano nonostante il formidabile sviluppo di nazioni come l´Indonesia e la Malaysia, il tabù della donna resta implacabile, forse inchiodato, secondo molti studiosi, a quell´editto (5, 59: 709) del Profeta nel quale Mohammed commenta critico la elevazione di una donna sul trono dei Persiani: «Un popolo governato da una donna non potrà mai vincere». Naturalmente non è necessario convertirsi all´Islam, unirsi a pellegrinaggi alla Mecca o frequentare una madrassa pachistana per trovare la sostanza, se non la forma, di questo editto anti femminile, e basta guardarsi in casa per vederlo tenacemente applicato o aggirato con umilianti trovate pubblicitaria. Anche negli effimeri regni del «socialismo reale», dietro le donne simbolo, fuse nei bronzi alla compagna partigiana o nei tazebao per la gloriosa guardia rossa, il potere è sempre rimasto ben stretto nel pugno degli uomini, inclusa quella Cina dove le due donne più celebri del XX secolo, la crudele vedova di Mao e la rapace moglie di Ciang Kaishek brillano come esempi terrificanti nella memoria popolare. Si può tuttavia sperare legittimamente che nella Cina dell´ingordo sviluppo, nell´India del progresso più diffuso (dove già una donna Hindu fu primo ministro, la signora Ghandi), nel Giappone più formalmente democratico ma sempre implacabilmente maschio, il tabù della «donna sul trono» imposto all´Islam dal Profeta cada. Ma nella galassia musulmana, nonostante la fatica di qualche rara femminista riformista e di giuristi che dissentono dall´interpretazione di quell´editto, la condizione politica delle donne è l´espressione diretta della loro condizione sociale, non un´assurdità tenace come in nazione europee dove la dissonanza fra il ruolo delle donne nella vita economica e il loro ruolo nella vita politica è ormai stridente. La morte di Benazir Bhutto serve a ricordare che dietro tutte le costituzioni, le promesse, i discorsi, i regimi che cadono e quelli più graditi che vengono eretti per sostituirli, la misura autentica del progresso e della democratizzazione di quelle nazioni verrà dalle loro donne, non dai discorsi, dalle faide o dalle vendette dei loro uomini.