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lunedì 5 luglio 2010

Gini


Roberto Mania su Repubblica riporta cosi' i dati OCSE sul coefficiente di Gini applicato al reddito in 27 paesi. E si scopre che dagli anni 90 la tendenza verso una societa' di ricchi sempre piu' ricchi e di poveri sempre piu' poveri invece di invertirsi si e' aggravata, colpendo con piu' determinazione i giovani. E l'ultima finanziaria ne e' lo specchio fedele:

Forse non è neanche più un caso che l'indice per misurare il tasso di diseguaglianza nella distribuzione del reddito sia stato definito nel secolo passato da uno statistico-economista italiano: Corrado Gini. Forse era già quello un segno premonitore. Ecco, il "coefficiente Gini" ci dice quanto siamo peggiorati. E peggioreremo ancora se è vero che la discesa ha subito un'accelerazione con la recessione precedente, quella dei primi anni Novanta. Meno profonda di questa e più celere nell'abbandonarci, però. "L'esperienza del 1992-93 quando l'economia italiana attraversò una fase severamente negativa, suggerisce che a una crisi economica può seguire un persistente aggravamento della diseguaglianza", ha scritto l'economista della Sapienza di Roma Maurizio Franzini, nel suo recente libro "Ricchi e poveri" (Università Bocconi editore). Basterà aspettare i prossimi mesi. Più basso è l'indice Gini più eguale è la società. Il nostro indice Gini arriva a 35. In Polonia è 37, negli Stati Uniti 38, in Portogallo 42, in Turchia 43 e in Messico 47. La Francia ha un coefficiente del 28 per cento e la Germania, nonostante gli effetti della riunificazione est-ovest, è al 30. In alto i paesi dell'uguaglianza, l'Europa del nord: la Danimarca e la Svezia con un coefficiente Gini del 23 per cento.
C'è anche un altro modo per misurare la diseguaglianza, dividendo la popolazione in decili: il 10 per cento più ricco e il 10 per cento più povero per poi calcolare quante volte il reddito del primo gruppo supera il secondo. Anche qui siamo messi male, malissimo: gli italiani più ricchi hanno un reddito superiore di dodici volte quello dei più poveri. Certo, in Messico questo rapporto sale a 45, ma nella vecchia Europa ci supera solo la Gran Bretagna con un rapporto che sfiora il 14, mentre la Germania è al 6,9, la Spagna al 10,3, la Svezia al 6,2. Conclusione di una ricerca dell'Ires appena uscita ("Un paese da scongelare", di Aldo Eduardo Carra e Carlo Putignano, edito da Ediesse): "In Italia i ricchi sono più ricchi, il ceto medio è più povero e i poveri sono molto più poveri". E così, in un decennio le diseguaglianze si sono accresciute di oltre cinque punti. Il coefficiente Gini era 29 nel 1991, poi è salito al 34 nel 1993. E ora - si è visto - è al 35. Ma nulla fa pensare che si fermi lì. Anzi: tutto fa pensare il contrario. Altri paesi - la Spagna, per esempio - si sono mossi in direzione esattamente opposta [...]
[...] Nemmeno la recessione è stata, ed è, uguale per tutti. I giovani stanno pagando più caro. È l'Istat che lo certifica nel suo Rapporto annuale: "La crisi ha determinato nel 2009 una significativa flessione dei giovani occupati (300 mila in meno rispetto all'anno precedente), i quali hanno contribuito per il 79 per cento al calo complessivo dell'occupazione". Un giovane su tre è senza lavoro. Un giovane - ricordano Tito Boeri e Vincenzo Galasso nel loro "Contro i giovani" (Mondadori) - guadagna il 35 per cento in meno di chi ha tra i 31 e i 60 anni (era il 20 per cento negli anni Ottanta). Ecco: così, partendo dal basso, si costruisce un paese diseguale.

domenica 14 febbraio 2010

The spirit level


"La misura dell'anima" (titolo italiano di "The spirit level" di R. Wilkinson e K. Pickett, due economisti britannici) non e' un libro mistico, ma un volumetto piuttosto concreto che parla di economia e di societa'. Lo fa a un livello accessibile, a tratti pure troppo, pur contenendo una bella mole di dati e di informazioni. Tutte tese a dimostrare il perche' siano le disuguaglianze a rendere le societa' piu' infelici, piu' che il ristagno dell'economia. Infatti gli autori dimostrano pagina dopo pagina come la differenza di reddito fra i piu' ricchi e i piu' poveri di diversi paesi del mondo correla con i tassi di violenza, l'ignoranza, il maggiore disagio psichico, orari di lavoro piu' lunghi, la salute precaria, il numero di detenuti, di tossicodipendenti, ragazze-madri, obesi... Mentre i piu' sono abituati a pensare che la crescita economica abbia l'effetto automatico di rendere una nazione più sana e più soddisfatta (il famoso Wall Street Pissing di Paoliniana memoria), scopriamo invece che e' possibile dimostrare dati alla mano che i malesseri generati dalla diseguaglianza coinvolgono tutti. Non solo i ceti più svantaggiati, ma anche quanti si collocano al vertice della scala sociale. La prospettiva aperta dal libro è chiara: se si vuole avviare un nuovo ciclo di crescita che ponga al centro la qualità della vita e non solo il Pil, occorre intervenire immediatamente per ridurre la forbice sociale cresciuta a dismisura tra anni ottanta e novanta, redistribuendo reddito e opportunità prendendo ispirazione da Scandinavia e Giappone, esempi virtuosi di egualitarismo sebbene basati su modelli completamente diversi.
Oltre ad analizzare i dati raccolti in piu' di 30 anni di ricerche, gli autori nei capitoli finali cercano di individuare anche qualche strumento pratico per aiutare a creare una societa' piu' egualitaria, puntando sulle nuove tecnologie, le cooperative, abbattendo i salari dei supermanager, aumentando la progressivita' delle imposte, creando una "carta CO" a scalare per misurare i consumi ambientali di ognuno, investire in innovazione e istruzione. E soprattutto puntano il dito sulla parte politica che in questi anni si e' piu' battuta contro il liberismo economico sfrenato e il consumeismo, colpevole di aver perso di vista un ideale di societa' a cui ispirarsi. E nel loro piccolo provano a rimediare. Questo il finale del libro:


Speriamo di aver dimostrato che esiste una migliore società per cui lottare: una società fondata sull’uguaglianza, in cui le persone non siano divise dallo status e dalla gerarchia; una società in cui sia possibile ritrovare un senso di comunità, superare le sfide del riscaldamento globale, possedere e controllare democraticamente il proprio lavoro insieme a comunità di colleghi, e partecipare ai benefici di un crescente settore non monetizzato dell’economia. La nostra non è un’utopia: i dati dimostrano che anche una minuscola diminuzione della disuguaglianza, che è già realtà in alcune delle democrazie benestanti, può cambiare in meglio la qualità della vita di tutti. Adesso il compito è lavorare per una politica che riconosca il tipo di società che dobbiamo creare e che si impegni a far leva sulle opportunità tecnologiche e istituzionali per realizzarla. [...]
Dopo aver vissuto per diversi decenni con la sensazione opprimente che non vi siano alternative al’insuccesso sociale è ambientale delle società moderne, oggi possiamo finalmente ritrovare quel sentimento di ottimismo che nasce dal sapere che i problemi possono essere risolti. Sappiamo che la promozione dell’uguaglianza ci aiuterà a tenere a freno il consumismo e agevolerà l’introduzione di provvedimenti atti a fronteggiare il riscaldamento globale […] Siamo sul punto di creare una ocieta' qualitativamente migliore e veramente accogliente per tutti.
Per sostenere la necessaria volonta' politica, dobbiamo ricordare che sulla nostra generazione incombe la responsabilità di produrre una delle maggiori trasformazioni della società dell’uomo. Abbiamo visto che nei paesi ricchi la crescita economica non è più in grado di contribuire all’innalzamento della vera qualità della vita, e anche il nostro futuro sta nel migliorare la qualità dell’ambiente sociale nelle comunità in cui viviamo. Il ruolo di questo libro è sottolineare che l’uguaglianza costituisce le fondamenta materiali su cui costruire migliori relazioni sociali.


Una nota finale. Oggi, dopo aver finito il libro, ho scoperto a Messa che il Vangelo di oggi erano le Beatitudini secondo Luca, quelle in cui non solo Gesu' spiega che e' dei poveri il regno di Dio, ma in cui mette anche i guardia i ricchi, i sazi e quelli in alto nella scala sociale, perche' saranno afflitti. In altre parole, quello che il libro appena concluso si sforzava di dimostrare con dati, grafici e tabelle. Peccato pero' che trppo spesso la Chiesa invece di farsi portatrice di questo messaggio rivoluzionario si sia seduta troppo spesso dalla parte della difesa a oltranza dello status quo e del conservatorismo...

martedì 1 dicembre 2009

Il mondo alla rovescia


Mentre in Honduras il governo golpista cerca una legittimazione nelle elezioni di Domenica, svoltesi in un clima repressivo e farsesco, senza osservatori internazionali, in Uruguay Pepe Mujica, ex guerrigliero Tupamaro, per 13 anni prigioniero della dittatura, torturato e rinchiuso in un pozzo, è il nuovo presidente della Repubblica. Il candidato del Frente Amplio ha ottenuto il 51,9% dei voti, con un’affluenza alle urne superiore al 90% (!!). Cosi' Gennaro Carotenuto sull'elezione:

Come ha detto lo stesso dirigente politico tupamaro, emozionatissimo nel suo primo discorso sotto la pioggia battente a decine di migliaia di orientali che hanno festeggiato con i colori del Frente Amplio, quello che lo porta alla presidenza è proprio “un mondo alla rovescia”.

Un mondo nuovo i contorni del quale non sono ancora del tutto visibili nella prudenza dei grandi dirigenti politici che rappresentano il fiorire dei movimenti sociali, indigeni, popolari del Continente ma che si tratteggia in due grandi temi di fondo: uguaglianza tra i cittadini e unità latinoamericana.

Mujica è stato chiarissimo: il primo valore della sua presidenza sarà il mettere l’uguaglianza tra i cittadini al primo posto e il primo ringraziamento è andato oltre che al popolo orientale "ai fratelli latinoamericani, ai dirigenti politici che li stanno rappresentando e che rappresentano le speranze finora frustrate di un continente che tenta di unirsi con tutte le sue forze”.

Proprio il trionfo di Mujica, la quarta figura che viene dal basso, plebea se preferite, e non espressione delle classi dirigenti, illuminate o meno, a divenire presidente in appena un decennio, testimonia che l’America latina sta riscrivendo la grammatica politica della rappresentanza democratica in questo inizio di XXI secolo in una misura perfino insospettabile e incomprensibile in Europa.

Mujica, nonostante la militanza politica di più di mezzo secolo, è un venditore di fiori recisi nei mercati rionali. E’ uno che quando è diventato deputato per la prima volta e fino a che non ha avuto responsabilità di governo ha accettato dallo Stato solo il salario minimo di un operaio e, siccome questo non è sufficiente per vivere, ha continuato a vendere fiori nei mercati rionali. Per campare. Indecoroso per un parlamentare, ma solo così, solo dal basso, oggi Mujica può permettersi a testa alta di rappresentare il popolo e proporre a questo “un governo onesto”.

Non è un medico, come Tabaré Vázquez o Salvador Allende o Ernesto Guevara, né ha un dottorato in Belgio come l’ecuadoriano Rafael Correa. Non ha studiato dai gesuiti come Fidel Castro né proviene dalla classe dirigente illuminata come Michelle Bachelet in Cile o i coniugi Kirchner in Argentina. Non è, soprattutto, un pollo di batteria, allevato per star bene in società come tanti burocratini dei partiti politici della sinistra europea, che infatti passa di sconfitta in sconfitta e di frammentazione in frammentazione mentre invece in America l’unità delle sinistre è un fatto.

Pepe il venditore di fiori recisi nei mercatini rionali è un uomo del popolo come l’operaio Lula in Brasile, come il militare di umili origini Hugo Chávez in Venezuela e come il sindacalista indigeno Evo Morales in Bolivia. Non a caso sono tre uomini politici che hanno mantenuto un rapporto privilegiato con la loro classe di provenienza, che non hanno tradito e che sono ricompensati con alcuni tra i più alti indici di popolarità al mondo, nonostante siano costantemente vittime di campagne ben orchestrate di diffamazione da parte dei complessi mediatici nazionali e internazionali.

Non è un caso che da questi dirigenti politici venga posto sul piatto dell’agenda politica lo scandaloso problema dell’uguaglianza che trent’anni di retorica neoliberale avevano umiliato, vilipeso e cancellato e che invece è più che mai l’unico motore dell’unico futuro possibile non solo in America latina.

L’America latina integrazionista, dove diventa presidente un ex-guerrigliero venditore di fiori recisi nei mercatini dei quartieri popolari di Montevideo, è davvero “il mondo alla rovescia”, ma è anche la speranza di un “mondo nuovo”, di un nuovo inizio e un futuro migliore in pace e in democrazia. Questa speranza non poteva che venire dal Sud del mondo, da quella “Patria grande latinoamericana” che sta riscrivendo la Storia.

E il nostro bravo Silvio che fa? Dopo Gheddafi, non si fa mancare nulla...