mercoledì 25 agosto 2010

25 Aprile, in ritardo


Con qualche mese di ritardo (ma sempre attualissima, anche in questi tempi in cui la Chiesa commincia ad abbandonare la barca berlusconiana alla deriva), una bellissima omelia di Don Luca Mazzinghi per il 25 Aprile di qualche anno fa a San Romolo a Bivigliano. Purtroppo, su questi temi e sull'intreccio tra Chiesa e politica pare sempre piu' la voce di uno che grida nel deserto...
Grazie a Lorenzo, via Villa Guiccardini.

Oggi, per la Chiesa, festa dell’evangelista Marco. In Italia coincide con una festa civile, la memoria della liberazione dalla dittatura del nazismo e del fascismo. Una Messa, in questo contesto, acquista valore per i credenti prima di tutto come memoria e preghiera per chi è rimasto vittima di questa ondata di violenza, per i caduti che hanno lottato per la libertà, ma si allarga anche come richiesta di perdono per coloro che della guerra sono stati la causa e infine diviene una richiesta al Signore perchè ci doni lui la vera pace e ci conduca alla vera libertà.

E tuttavia dobbiamo rispondere a una domanda: qual è la voce della chiesa in questo contesto? E in secondo luogo: che cosa può dirci oggi Marco, visto che per la chiesa questa festa è al centro della liturgia di oggi? Provo a dire qualcosa con molta semplicità, ma anche con grande convinzione.

Il concilio Vaticano II ci ricorda, nella Gaudium et Spes, che la chiesa non si propone al mondo come forza politica nè intende seguire i criteri propri della politica; anzi, qualora fosse necessario, deve saper anche rinunciare ai privilegi che l’autorità politica le offre, anche se si trattasse di privilegi legittimi, qualora questi privilegi diventassero un’occasione di scandalo e di controtestimonianza evangelica.
C’è da chiedersi, in tutta onestà, se la chiesa oggi si ricordi ancora di questa parole del concilio; se davvero lo fa, è evidente che essa non può mai porre come criterio di comunione e di unità le opzioni temporali o le scelte politiche: ne consegue, proprio per la natura stessa della fede cristiana, la necessità del pluralismo politico dei credenti! Lo specifico del cristiano non sta infatti in una qualche “verità” politica, ma nella fede in Gesù Cristo. Tale fede ha una valenza politica in quanto si pone come “critica” di ogni scelta politica che il cristiano cerca di realizzare insieme agli altri uomini che non credono o che credono in modo diverso da lui; la fede da un lato spinge il cristiano ad agire nella cosa pubblica, dall’altro lo rende consapevole della relatività di ogni scelta politica che deve essere per sua natura tendente al bene comune anche di chi la fede non ce l’ha.
Così il compito della chiesa non è quello dare generiche affermazioni di principio in campo politico, magari difendendo i cosiddetti “valori non negoziabili”. La Chiesa non è tanto la custode dell’etica, quanto del vangelo e della fede; talvolta in campo puramente etico deve anche saper tacere. Sono inve-ce i singoli cristiani, i laici, che spesso dovrebbero parlare, non la chiesa in quanto gerarchia ecclesiastica. Questo ce lo ricorda con forza papa Paolo VI nella celebre enciclica Popolurum Progressio di cui in questi giorni ricorre il quarantesimo anniversario...
“Se l'ufficio della Gerarchia è quello di insegnare e interpretare in modo autentico i principi morali da seguire in que-sto campo, spetta ai laici, attraverso la loro libera iniziativa e senza attendere passivamente consegne o direttive, di penetrare di spirito cristiano la mentalità e i costumi, le leggi e le strutture della loro comunità di vita.”
Se la parola “religiosa” è propria dei profeti – ed è esattamente questo il compito della chiesa intesa come magistero ecclesiastico – la parola politica è invece il compito dei giusti e dei saggi.

Cosa può dire allora la chiesa oggi in relazione alla libertà, alla pace?

La Scrittura conosce molto bene il problema della schavitù e della guerra, fin dalla più antica storia di Israele che, come si legge nel libro dell’Esodo, era prigioniero nella “casa delle schiavitù” del faraone (Es 20,1) e che continuamente conoscerà guerre nella sua lunga storia – fino ad oggi, se è per questo. Che risposta offre la Scrittura?
Ed ecco allora un testo di Marco, la disputa tra i discepoli su chi di loro è il più grande: “ma tra voi non sia così…”. La chiesa dunque come “comunità alternativa” al potere politico e capace, in questo campo, di una vera parola profetica. Il “tra voi non sia così” non va visto nell’ottica della contrapposizione e dello scontro frontale: di qua la chiesa, di là il mondo; così da un lato ci si proclama difensori non richiesti di pretesi valori etici cristiani nel momento stesso in cui questi valori vengono negati nei fatti, in nome di una pretesa “reli-gione civile” tanto cara a quelli che io chiamo gli “atei devoti”. Dall’altro lato c’è ancora chi continua a considerare la chiesa come sostanzialmente un nemico da combattere, una realtà insignificante da confinare nelle sacrestie, “la più grande bugia della storia”, come canta quel Simone Cristicchi tanto caro agli appassionati di Sanremo. Il concilio Vaticano II ha voluto ricucire quella frattura tra chiesa e mondo con-temporaneo che si era prodotta fin dai tempi del Sillabo di Pio IX. Se il nostro mondo ha senza dubbio bisogno della chiesa – pure se molto spesso non lo sa, anche la chiesa ha bisogno del nostro mondo.
Il “tra voi non sia così” di Marco non è perciò un rinnovare la logica del non expedit, ma entrare nella logica evangelica del servizio, del dialogo e della sottomissione reciproca. La chiesa si propone al mondo come comunità che, in una società connotata da relazioni fragili, conflittuali e di tipo consumi-stico, esprime la possibilità di relazioni gratuite, forti e durature, cementate dalla mutua accettazione e dal perdono reciproco. Questo è il suo contributo alla pace e alla libertà. Offrire agli uomini lo spazio concreto per viverla.

Ma c’è qualcosa di più che Marco ci ricorda. Il vangelo di Marco si gioca su un dramma: più Gesù si fa conoscere al mondo, più viene rifiutato, iniziando proprio dai suoi stessi discepoli che non lo comprendono. Solo sotto la croce il centurione romano, il suo boia, riconoscerà che egli era il Figlio di Dio. Nessuno sembra averlo compreso prima di quel momento e Marco non fa nulla per attenuare lo scandalo.
La verità di Gesù, per Marco come per il resto del NT, si svela pienamente sulla croce; solo qui si comprende chi è davvero Gesù. La “parola della croce” non è altro poi che la parola del dono, del servizio, della logica del bene comune, del “tra voi non sia così”. La parola della croce è la parola che accetta la debolezza, la sconfitta, che non demonizza neppure l’avversario che ti sta crocifiggendo; la parola che rinunzia alla presunzione e all’arroganza. E’ il riconoscimento del fatto che senza un vero dono di se stessi non si potrà mai parlare di pace. E del resto fin dalla Città di Dio di s. Agostino la pace è sempre stata intesa dalla chiesa come la tranquillità dell’ordine, la concordia e l’armonia tra gli uomini.
Questo è un altro contributo della chiesa: annunziare agli uomini di buona volontà che c’è qualcuno che ha già aperto per tutti questa via della pace e che quel qualcuno si chiama Gesù, “la nostra pace”, come lo chiama Paolo nella lettera agli Efesini. Il cristiano offre così al mondo non una serie di valori etici più o meno sublimi bensì quello che Maritain chiamava “un supplemento d’anima”: la fede in Gesù Cristo. Ancora Paolo VI... “La pace non si riduce a un'assenza di guerra, frutto dell'equilibrio sempre precario delle forze. Essa si costruisce giorno per giorno, nel perseguimento di un ordine voluto da Dio, che comporta una giustizia più perfetta tra gli uomini.”

Bivigliano - 25 aprile 2007

venerdì 20 agosto 2010

Trasloco


Da stasera, anche se ancora in mezzo a scatole, scatoloni e lampadine penzoloni, sono quassu'. Grazie a tutte le braccia che mi hanno dato e mi daranno una mano...

giovedì 19 agosto 2010

Obbedienza e Antigone in Palestina


Maria G. Di Rienzo ha messo a disposizione nella sua traduzione la seguente lettera aperta pubblicata come annuncio a pagamento sul quotidiano israeliano "Haaretz" il 6 agosto 2010 - da TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 280 del 12 agosto 2010, via Walter Fiocchi


Venerdi' 23 luglio 2010 abbiamo fatto un viaggio, una dozzina di donne ebree israeliane ed una dozzina di donne palestinesi della West Bank con quattro loro figli, fra cui un neonato. Abbiamo viaggiato in auto attraverso le colline interne del paese (“Shfela”) e fatto un giro turistico di Tel Aviv e Yaffa insieme. Abbiamo pranzato in un ristorante, preso il sole e passato veramente dei bei momenti sulla spiaggia. Siamo tornate attraverso Gerusalemme ed abbiamo guardato la citta' vecchia da lontano.
La maggior parte delle nostre ospiti palestinesi non aveva mai visto il mare (che e' a meno di 60 km dalle loro case). La maggior parte di esse non ha mai avuto la possibilita' di pregare nei propri luoghi sacri a Gerusalemme - Al Quds, e li hanno osservati con desiderio da Monte Scopus.
Nessuna delle nostre ospiti aveva un permesso di ingresso in Israele. Le abbiamo fatte passare attraverso i posti di blocco nelle nostre automobili, sapendo di violare la “Legge di ingresso in Israele”. Lo annunciamo qui apertamente.
Questo viaggio comune e' stato organizzato quale risposta alla denuncia presentata dallo stato alla polizia contro una di noi, Ilana Hammerman, per un viaggio simile che lei ha fatto con tre giovani donne palestinesi. Abbiamo deciso di agire nello spirito di Martin Luther King e di mostrare simbolicamente che noi non riconosciamo leggi immorali e ingiuste.
Non riconosciamo legalita' alla “Legge di ingresso in Israele”, una legge che permette ad ogni israeliano ed ogni ebreo di viaggiare liberamente in qualsiasi parte della terra fra il Mediterraneo ed il fiume Giordano, ma che nega lo stesso diritto ai palestinesi, nonostante questo sia anche il loro paese. Questa legge li spoglia del diritto di visitare citta' e villaggi lungo la “Linea Verde”: luoghi in cui essi hanno profonde radici familiari, di eredita' culturale e di legami nazionali.
Percio', abbiamo obbedito alla voce della nostra coscienza e ci siamo prese la liberta' di condurre delle donne in alcuni di questi luoghi. Noi e loro ci siamo assunte il rischio insieme, con chiarezza di mente e forte convinzione.
In tal modo, noi israeliane abbiamo guadagnato un altro grande privilegio, il fare esperienza nella nostra nazione, una nazione che vive sulla sua spada, di uno dei giorni piu' belli ed emozionanti della nostra vita: aver conosciuto coraggiose donne palestinesi, piene di gioia di vivere, l'aver passato del tempo assieme a loro ed essere state libere assieme a loro, anche se per un solo giorno.
Non abbiamo portato in auto “terroriste” ne' “nemiche”, ma esseri umani, nostre simili. Le autorita' ci separano con barriere e posti di blocco, regole e regolamenti. Non per salvaguardare la nostra sicurezza, ma per santificare l'ostilita' e perpetuare il controllo di terra illegalmente sottratta ai legittimi proprietari. Questo ladrocinio di massa e' stato compiuto in violazione di tutte le leggi e convenzioni internazionali; viola i valori universali dei diritti umani, la giustizia e l'umanita'.
Non siamo noi a violare la legge, lo stato di Israele e' stato il violatore in capo per decenni. Non siamo noi, donne con una consapevolezza civile e democratica, ad esserci spinte troppo in la'. E' lo stato di Israele che ha passato i limiti e che ci sta conducendo in un precipizio e forse persino all'autodistruzione.
Chiamiamo i cittadini di Israele ad ascoltare le parole di Henry David Thoreau, un pensatore americano del XIX secolo, che nel suo famoso trattato sulla Disobbedienza civile scriveva: “Quando un sesto della popolazione di una nazione, che si suppone essere il rifugio della liberta', e' in schiavitu', ed un intero paese e' ingiustamente rovesciato e conquistato da un esercito straniero, e reso soggetto alla legge marziale, io penso che non sia mai troppo presto per gli uomini onesti ribellarsi e rivoluzionare la situazione. Cio' che rende questo dovere ancora piu' urgente e' il fatto che il paese cosi' conquistato non e' il nostro, e' nostro l'esercito invasore”.
Ascoltate queste parole, guardate come si adattano bene alla situazione in cui la nostra nazione ha portato se stessa, e a quello che abbiamo fatto.

Ilana Hammerman, Jerusalem
Annelien Kisch, Ramat Hasharon
Esti Tsal, Tel Aviv
Daphne Banai, Tel Aviv
Klil Zisapel, Tel Aviv
Michal Pundak Sagie, Herzlia
Nitza Aminov, Jerusalem
Irit Gal, Jerusalem
Ofra Yeshua-Lyth, Tel Aviv
Ronni Eilat, Kfar Saba
Ronit Marian-Kadishai, Ramat Hasharon
Ruti Kantor, Tel Aviv

martedì 10 agosto 2010

Poveracci


Basta cliccare sull'immagine per ingradirla (e leggere qualcosa). Di Stefano Disegni.

lunedì 9 agosto 2010

Chi va piano va sano e lontano



da Leonardo