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venerdì 24 agosto 2012

Sacco e Vanzetti


« Ricordati sempre, Dante, della felicità dei giochi non usarla tutta per te, ma conservane solo una parte (...) aiuta i deboli che gridano per avere un aiuto, aiuta i perseguitati e le vittime, perché questi sono i tuoi migliori amici; son tutti i compagni che combattono e cadono come tuo padre e Bartolo, che ieri combatté e cadde per la conquista della gioia e della libertà per tutti e per i poveri lavoratori »
(Bartolomeo Vanzetti al figlio di Sacco, Dante - 1927)


Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, anarchici italiani emigrati negli Stati Uniti, furoono processati negli anni 20 per l'accusa di omicidio di un contabile e di una guardia. Nonostante sulla loro colpevolezza fossero palese molte incongruenze anche all'epoca del loro processo, inclusa una confessione del detenuto portoricano Celestino Madeiros che li scagionava. A causa delle loro idee politiche e della loro partecipazione attiva nel movimento operaio, il giudice Webster Thayer li definì senza mezze parole due bastardi anarchici durante il processo.


Nicola e Bartolomeo, arrivati negli Stati Uniti tra il 1908 e il 1909, lavorarono il primo in una fabbrica di calzature, e il secondo prima come operaio e poi in proprio come pescivendolo, dopo che in seguito all'organizzazione di uno sciopero nessuno volle piu' dargli lavoro. Dopo essere fuggiti in Messico per evitare la chiamata alle armi nel 1916, tornarono nel Massachusetts dopo la guerra, non sapendo di essere inclusi in una lista di sovversivi compilata dal Ministero di Giustizia, né di essere pedinati dagli agenti segreti USA. Nella stessa lista era incluso anche un amico di Vanzetti, il tipografo Andrea Salsedo. Questo, il 3 maggio 1920 venne assassinato dalla polizia, che lo fece cadere dal quattordicesimo piano di un edificio appartenente al Ministero di Giustizia. Sacco e Vanzetti organizzarono un comizio per far luce su questa vicenda il 9 maggio, ma i due vennero arrestati prima dell'evento, per essere stati trovati in possesso di volantini anarchici e alcune armi. Pochi giorni dopo vennero accusati anche di una rapina avvenuta a South Braintree, un sobborgo di Boston, poche settimane prima del loro arresto; in tale occasione erano stati uccisi a colpi di pistola due uomini: il cassiere della ditta (il calzaturificio «Slater and Morrill») e una guardia giurata.

Dopo un processo sommario e condizionato dal clima politico americano dell'epoca, caratterizzato dalal caccia al comunista e dalla repressione die movimenti operai, furono giustiziati sulla sedia elettrica il 23 agosto 1927, 85 anni fa, nel penitenziario di Charlestown.

Solo 50 anni dopo, il 23 agosto 1977, il governatore del Massachusetts M. Dukakis emanò un proclama che assolveva i due uomini dal crimine, dicendo: «Io dichiaro che ogni stigma e ogni onta vengano per sempre cancellati dai nomi di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti».


Dal film "Sacco e Vanzetti" di Giuliano Montaldo, il discorso effettivamente pronunciato all'ultima udienza da Bartolomeo Vanzetti alla corte:



martedì 13 settembre 2011

Perche' l'Italia diventi un paese civile

Testo stenografico dell’arringa di Piero Calamandrei pronunciata il 30 marzo 1956 dinanzi al Tribunale penale di Palermo nel corso del processo contro Danilo Dolci e altri coimputati per il digiuno sulla spiaggia di Trappeto e lo "sciopero alla rovescia" sulla trazzera vecchia di Partinico: Danilo Dolci era stato infatti arrestato il 2 febbraio 1956 per aver promosso e capeggiato, insieme con alcuni suoi compagni, due manifestazioni di protesta contro le autorità che non avevano provveduto a far rispettare le leggi e a dar lavoro ai disoccupati della zona. Dopo un digiuno per protestare contro la pesca di frodo che affamava i piccoli pescatori di Trappeto, Danilo organizza uno "sciopero alla rovescia", convincendo diverse centinaia di disoccupati a iniziare lavori di sterramento e di assestamento in una vecchia strada comunale abbandonata, la "trazzera vecchia", nei pressi di Partinico, allo scopo di dimostrare che non mancavano né la volontà di lavorare né opere socialmente utili da intraprendere in beneficio della comunità. I principali capi di accusa riguardavano la violazione degli articoli 341 (oltraggio a pubblico ufficiale), 415 (istigazione a disobbedire alle leggi), 633 (invasione di terreni) del Codice penale.


Qui disponibile l'arriga interpretata da Bertinotti per uno spettacolo teatrale su Danilo.


Signori Giudici.


Questo processo avrebbe potuto concludersi, meglio che con la parola mia, con la parola di un giovane. Le parole dei giovani sono parole di speranza, preannunziatrici dell'avvenire: e questo è un processo che preannuncia l'avvenire.
Avrebbe dovuto parlare prima l'imputato, Danilo Dolci che è un giovane; e dopo di lui,non per difenderlo ma per ringraziarlo, il più giovane dei suoi difensori, l'avvocato Antonino Sorgi.
Se si fosse fatto così questo processo sarebbe finito da cinque giorni; e da cinque giorni Danilo Dolci e gli altri imputati, i cosiddetti "imputati", sarebbero tornati a Partinico, invece di tornarvi, come vi torneranno, soltanto stasera, dopo l'assoluzione, a far Pasqua con le loro famiglie.
Ma forse, per la risonanza nazionale e sociale di questo processo, è stato meglio che sia avvenuto così: che abbiano parlato anche i vecchi e meno giovani; e non brevemente.
E così l'onore e la responsabilità di chiudere la discussione e di rivolgervi, signori giudici, l'ultima preghiera che vi accompagnerà in camera di consiglio, sono toccati a me; non solo per la mia età, ma forse anche perché io sono qui, unico tra i difensori, soltanto un avvocato civilista, cioè un avvocato che non ha esperienza professionale di processi penali.
Questo, infatti, non è un processo penale: o almeno non è quello che i profani si immaginano, quando parlano di un processo penale.
Nel processo penale il pubblico concentra i suoi sguardi sul banco degli imputati, perché crede di vedere in quell'uomo, anche se innocente, il reo, l'autore del delitto: l'uomo che ha ripudiato la società, che è una minaccia per la convivenza sociale.
L'imputato è solo, inconfondibile, diverso agli occhi del pubblico da tutti gli altri uomini, isolato dentro la sua gabbia e, anche quando la gabbia non c'è, isolato dentro la sua colpa.
Ma questo non è un processo penale: dov'è il reo, il delinquente, il criminale? Dov'è il delitto, in che consiste il delitto, chi lo ha commesso?
Angosciose domande: alle quali forse neanche il P.M., nella sua misurata requisitoria che abbiamo ammirato non tanto per quello che ha detto quanto per quello che ha lasciato intendere senza dirlo, saprebbe in cuor suo dare una tranquillante risposta.
Non a caso qui il banco degli imputati e quello dei difensori sono così vicini, fino a parere un banco solo. Dove sono gli imputati e dove i difensori? Qui, in realtà, o siamo tutti difensori o siamo tutti imputati.
In questa aula, da qualunque parte ci volgiamo, nei vari seggi di essa, non ci sono altri che uomini che si trovano qui, perché hanno voluto e vogliono prestare ossequio alla legge: osservarla, servirla.
La sigla è quasi si direbbe il vertice magico di questo processo è in quella formula laconica intarsiata con caratteri antichi sulla cattedra ove siedono i giudici. Non è la solita frase che in altre aule si legge scritta sul muro al disopra delle teste di giudici, quella frase che suscita tante speranze ma anche tante perplessità: "La legge uguale per tutti". No: il motto di questa aula è molto più laconico, misterioso e conciso come la risposta di un oracolo: "La legge".
Questo è l'imperativo categorico che ci tiene tutti qui incatenati dallo stesso dovere, appassionati dalla stessa passione: "de legibus".
Il Tribunale che siede è per definizione l'organo che, amministrando giustizia, fa osservare la legge.Il P.M., che siede al lato del collegio giudicante, è il rappresentante della legge.Noi avvocati siamo qui, al nostro posto, per difendere la legge. Dietro a noi, a fianco degli imputati e sulle porte, i commissari e gli agenti di polizia sono gli esecutori della legge.
E poi ci sono questi imputati: imputati di che? Mah... di nient'altro che di aver voluto anch'essi servire la legge: di aver voluto soffrire la fame e lavorare gratuitamente allo scopo di ricordare agli immemorì il dovere di servire la legge.
Ma allora vuol dire che siamo tutti qui per lo stesso scopo: quale è il punto del nostro dissidio, quale è il tema del nostro dibattito? Perché noi avvocati stiamo a questo banco degli imputati dietro a noi e i giudici nei loro seggi più alti? di che stiamo noi discutendo?
In verità io non riesco a riconoscere su queste facce di imputati, così tranquille e serene, le tristi impronte della delinquenza; né riesco a scoprire nelle umane facce dei carabinieri che stanno accanto a loro la fredda insensibilità dell'aguzzino. Io so che essi, quando mettono le manette a questi imputati, si sentono in fondo al cuore umiliati e addolorati di questo crudo cerimoniale, che pure hanno il dovere di compiere: quando la mattina gli imputati entrano in quest'aula incatenati, come prescrive il regolamento di polizia, non sono essi che provano rammarico e vergogna per quelle catene. Ho visto con i miei occhi che, nonostante quei polsi serrati nelle manette, le loro facce rimangono serene e sorridenti; ma un'ombra di mestizia traspare sui volti di chi li accompagna.
No no, il dissidio non è qui, in questa aula: il dissidio è più lontano e più alto. Sarebbe follia pensare che Danilo abbia potuto indirizzare agli agenti che lo arrestarono, fatti della stessa carne di questi che oggi lo accompagnano, l'epiteto di " assassini ". Danilo non parlava e non parla a loro. Gli assassini ci sono, ma sono fuori di qui, sono altrove: si tratta di crudeltà più inveterate, di tirannie secolari, più radicate e più potenti; e più irraggiungibili.
Di quello che è avvenuto, signori del Tribunale, non si deve dare colpa alla polizia, la quale è soltanto una esecutrice di ordini che vengono dall'alto. In quanto a me, vi dirò anzi che ho sentito dire che io dovrei essere debitore, verso qualcuno degli agenti che hanno deposto in questo processo, di speciali ragioni di gratitudine. Dai resoconti dati dalla stampa su una delle prime udienze, alla quale io non ho potuto partecipare, ho appreso che io dovrei ringraziare quel funzionario di polizia che oggi è commissario a Partinico, il dottore Lo Corte, del trattamento di favore che egli mi avrebbe usato a Firenze, nel periodo in cui egli apparteneva alla polizia della Repubblica di Salò: pare che nella sua deposizione egli abbia detto che mi trattò con speciale riguardo perché, quando venne al mio studio per arrestarmi, arrivò un quarto d'ora dopo che io ero uscito e così lasciò ineseguito il suo mandato. In verità io non mi ricordo di lui: e non so se devo essere grato a lui per essere arrivato un quarto d'ora dopo o a me stesso per essere uscito un quarto d'ora prima. Ma in ogni modo sono anche disposto ad essergli riconoscente: non sono queste vicende personali le cose che contano in questo processo.
Quello che conta è un'altra cosa: conoscere il perché umano e sociale di questo processo, collocarlo nel nostro tempo; vederlo, come tu ben dicevi, o amico Sorgi, storicamente, in questo periodo di vita sociale e in questo paese.
Io ho ammirato, lo ripeto, la misura con cui ha parlato il P.M.; ma su due delle premesse (oltreché, ben s'intende, su tutte le sue conclusioni) non posso essere d'accordo: e cioè quando egli ha detto che questa è " una comunissima vicenda giudiziaria ", e quando ha detto che per deciderla il Tribunale dovrà tener conto della legge ma non delle "correnti di pensiero" che i testimoni hanno portato in questa aula.
Dico, con tutto rispetto, che queste due affermazioni mi sembrano due grossi errori non soltanto sociali, ma anche specificamente giuridici. Non sono d'accordo sulla prima premessa. Questo non è un processo " comunissimo ": è un processo eccezionale, superlativamente straordinario, assurdo. Questo non è neanche un processo: è un apologo.
Un processo in cui si vorrebbe condannare gente onesta per il delitto di avere osservato la legge, anzi per il delitto di aver preannunciato e proclamato di volere osservare la legge: arrestati e rinviati a giudizio sotto l'imputazione di volontaria osservanza della legge con l'aggravante della premeditazione!
Per renderci conto con distaccata comprensione storica della eccezionalità e assurdità di questo processo, bisogna cercare di immaginare come questa vicenda apparirà, di qui a 50 o a 100 anni, agli occhi di uno studioso di storia giudiziaria al quale possa per avventura venire in mente di ricercare nella polvere degli archivi gli incartamenti di questo processo, per riportare in luce storicamente, liberandolo dalle formule giuridiche, il significato umano e sociale di questa vicenda.
Quali apparirebbero agli occhi dello storico gli atti più significativi di questo processo?
La sua attenzione si fermerebbe prima di tutto su quella ordinanza del giudice istruttore, con la quale, per negare agli arrestati la libertà provvisoria, si è testualmente affermato la "spiccata capacità a delinquere del detto imputato": il " detto imputato ", per chi non lo sapesse, sarebbe Danilo Dolci.
Suppongo che il magistrato che scrisse questa frase non abbia immaginato, al momento in cui la scrisse, il senso di sgomento che in centinaia di migliaia di italiani questa frase ha suscitato, quando l'hanno letta riferita sui giornali: senso di sgomento per lui, non per Danilo Dolci.
Ma, insomma, questa frase è stata scritta; e tra cinquant'anni lo storico la potrà leggere e potrà dire a se stesso:-Ecco, ho avuto la mano felice: ho trovato un caso interessante, il processo di un gran delinquente, un caso tipico di "spiccata capacità a delinquere".
Ma che cosa ha fatto mai Danilo Dolci per dimostrare questa sua " spiccata capacità "?
La capacità a delinquere, per me avvocato civilista, ha due aspetti: uno giuridico e uno sociale. Sotto l'aspetto giuridico mi pare che essa sia la tendenza e la attitudine a violare il diritto altrui; sotto l'aspetto sociale mi pare sia la incapacità di intendere che la vita in società è fatta di solidarietà e di altruismo: che senza solidarietà e senza altruismo non vi è civiltà. Il delinquente è essenzialmente un infelice esiliato nel suo sfrenato egoismo, un solitario incapace di vivere in società.
Dunque lo storico che si metterà a sfogliare questo processo, quando saranno da lungo tempo caduti e dimenticati quegli articoli della legge di pubblica sicurezza e del codice penale di cui stiamo qui a discutere da una settimana (quegli articoli che già assomigliano a quei gusci vuoti che rimangono attaccati ai tronchi degli ulivi quando già ne è volato via l'insetto vivo), scorrerà attentamente gli incartamenti per ricercare le prove di questa "spiccata capacità a delinquere " che l'ordinanza istruttoria con tanta durezza preannuncia. E, senza perdersi in sottili acrobazie di dialettica giuridica, si domanderà umanamente: che cosa avevano fatto di male questi imputati? In che modo avevano offeso il diritto altrui; in che senso avevano offeso la solidarietà sociale e mancato al dovere civico di altruismo?
Lo storico arriverà a trovare documentati nel seguito del processo due "misfatti".
Io mi limito a leggere qualche passo di un solo documento: di un documento che è ancora nelle mie mani e che dà a questa mia difesa il carattere non solo di una testimonianza, ma anche, come ieri vi dicevo, di una complicità.
Quando alla fine dello scorso gennaio Danilo Dolci, dopo essere stato a Torino per consultarsi con i suoi amici sulle azioni che si proponeva di svolgere a Partinico, passò da Firenze nel viaggio di ritorno, venne al mio studio per consigliarsi anche con me come legale ed esser sicuro che quello che stava per fare entrasse perfettamente nei limiti delle leggi. Non mi trovò; e allora mi lasciò una copia del foglietto che in questo momento vi sto leggendo, con questa nota scritta di suo pugno: "Speravo di vederti e di avvisarti. Un saluto con affetto. Tuo Danilo". Quando tornai dopo due giorni, e lessi il foglietto, il quale conteneva, come ora vi dirò, il programma di quello che stava per succedere a Partinico, trovai che niente di quello che era preannunciato in tale programma poteva in qualsiasi modo andar contro alle leggi o ai regolamenti di polizia: e per questo mi guardai bene dall’avvertire Danilo Dolci, che intanto era ritornato a Partinico, di astenersi dal fare quello che si proponeva. Se in quello che ha fatto c’è qualche cosa di contrario alla legge, sono dunque responsabile anch’io di complicità e, e forse la mia responsabilità è più grave della sua, perché io dovrei avere quella conoscenza tecnica delle leggi che Danilo non ha.
Dunque, vi dicevo, in questo documento che sto per leggervi c’è la prova di due misfatti.
Il primo misfatto è quello che si proponevano di compiere lunedì 30 gennaio i pescatori di Trappeto.
Si legge testualmente in questa dichiarazione:


"abbiamo ripetutamente documentato alle Autorità direttamente responsabili e all'opinione pubblica, per anni e anni, la pesca fuori legge della zona, gravissimo danno a tutti noi e all’economia nazionale.
" E’ profondamente doloroso e offensivo constatare che lo Stato non sa far rispettare le sue leggi più elementari, più giustificate: i mezzi di informazione e di pressione normali in uno Stato civile, qui sono stati assolutamente inefficaci. Decisi a fare rispettare le leggi, promuoviamo un movimento che non si fermerà fino a quando il buon senso e l'onestà non avranno trionfato. Inizieremo lunedì, 30 gennaio, digiunando per 24 ore."
Seguono circa 300 firme tra loro sono anche numerosi vecchi e ragazzi con piena coscienza dell'azione.


Questo è dunque il primo misfatto. Le circostanze sono semplici e chiare. Una piccola popolazione di poveri pescatori vive alla meglio con la pesca del suo mare. Per legge, il tratto di mare più vicino alla costa è riservato alla pesca della popolazione rivierasca; i motopescherecci, devono tenersi al largo. Ma qui i motopescherecci, per vecchio sistema, si beffano sfrontatamente della legge; da tempo vengono a pescare nel mare vicino alla riva, predando il pesce che dovrebbe dar da vivere ai piccoli pescatori. Così i pescatori locali non hanno più da pescare; questa sistematica rapina dei motopescherecci appartenenti a grandi società organizzate e protette dalle autorità, condanna i piccoli pescatori a morire di fame. Ricorrono alle autorità; ma le autorità non provvedono. Protestano, ma le autorità non ascoltano. Il contrabbando continua: qualcuno pensa che le autorità siano d'accordo coi contrabbandieri; e che ci sia qualcuno in alto che partecipa agli utili del contrabbando.
Allora che cosa fanno i pescatori che da anni reclamano giustizia e non riescono ad averla da chi dovrebbe darla: si ribellano? Si mettono a tumultuare? Rubano? Commettono violenze?
Niente di tutto questo. Arriva Danilo in mezzo a loro e dice: " Voi non avete da mangiare: non avete di vostro altro che la fame. L'unica protesta che vi rimane è questa: la vostra fame. Siete abituati a digiunare, andiamo tutti insieme a digiunare sulla spiaggia del mare. Stiamo a guardare, digiunando, i contrabbandieri protetti dalle autorità, che continuano a far rapina del pesce che la legge vorrebbe riservato a voi. Consoliamoci insieme col nostro digiuno; mettiamo in comune questo nostro unico bene, la fame. E per essere più sereni, porteremo sulla spiaggia qualche disco e ascolteremo la musica di Bach". (Qualcuno ha sorriso su questo particolare della musica: non ha ricordato che anche nella prima guerra mondiale questo era il motto dei fanti inchiodati nelle trincee: "canta che ti passa".)
Allora vengono fuori i commissari di polizia, gli agenti dell'ordine. Voi pensereste che intervengono finalmente per rimettere nella legalità i moto pescherecci contrabbandieri e per far cessare la loro rapina. No gli agenti dell'ordine intervengono per pigliarlsela con Danilo: per diffidare Danilo e i pescatori dal mettere in atto il loro proposito.
- non è permesso digiunare: vi vietiamo formalmente di digiunare.
-Ma come possiamo non diginare se non abbiamo più pesce da pescare?
-Non importa: digiunate a casa vostra, in privato, in segreto.
E’ un delitto digiunare in pubblico. Digiunare in pubblico vuol dire disturbare l'ordine pubblico.-
l'ordine pubblico di chi? L'ordine pubblico di chi ha da mangiare. Non bisogna disturbare con spettacoli di miseria e di fame la mensa imbandita di chi mangia bene; non bisogna che la gente ben nutrita, che va sulla spiaggia a passeggiare per meglio digerire il suo pranzo, sia disturbata dalla modesta vista dei pallidi affamati.


Questo è il primo misfatto: ora viene il secondo. Si legge sul solito documento:


"I cittadini di Partinico, donne comprese, proseguiranno l'azione giovedì 2 febbraio come è detto nella loro dichiarazione:
"Milioni di uomini nelle nostre zone stanno sei mesi all'anno con le mani in mano. Stare sei mesi all'anno con le mani in mano è gravissimo reato contro la nostra famiglia contro la società.
"Solo qui in Partinico su 25000 abitanti siamo in più di 7000 con le mani in mano per sei mesi all’anno e 7000 bambini e giovanetti non sono in grado di apprendere quanto assolutamente dovrebbero. Non vogliamo essere dei lazzaroni, non vogliamo arrangiarci da banditi: vogliamo collaborare esattamente alla vita, vogliamo il bene di tutti: e nessuno ci dica che questo è un reato.
"E’ nostro dovere di padri e di cittadini collaborare generosamente perché cambi il volto della terra, bandendo gli assassini di ogni genere. Chiediamo alle autorità, di collaborare con noi, indicando quali opere dobbiamo fare e come: altrimenti, assistiti dai tecnici, cominceremo dalle più urgenti.
" Perché sia più limpido a tutti il nostro muoverci, digiuneremo lunedì 30 gennaio; giovedì 2 febbraio cominceremo il lavoro. Frangeremo il pane con le mani.
"Vogliamo essere padri e madri anche noi e cittadini."
Seguono circa 700 firme.


Anche le circostanze di questo secondo misfatto sono chiare.
Ci sono a Partinico, oltre pescatori, altre migliaia di disoccupati. La Costituzione dice che il lavoro è un diritto e un dovere. Allora, che cosa fanno questi settemila disoccupati: invadono le terre dei ricchi, saccheggiano i negozi alimentari, assaltano i palazzi, si danno alla macchia, diventano banditi?
No. Decidono di lavorare: di lavorare gratuitamente; di lavorare nell'interesse pubblico.
Nelle vicinanze del paese si trova, abbandonata, una trazzera destinata al passo pubblico; nessuno ci passa più, perché il comune non provvede, come dovrebbe, alla sua manutenzione; è resa impraticabile dalle buche e dal fango. Allora i disoccupati dicono: "Ci metteremo a riparare gratuitamente la trazzera , la nostra trazzera. Ci redimeremo, lavorando da questo avvilimento quotidiano, da questa quotidiana istigazione al delitto che è l'ozio forzato. In grazia del nostro lavoro la strada tornerà ad essere praticabile. I cittadini ci passeranno meglio. Il sindaco ci ringrazierà". Che cosa è questo? E’ la stessa cosa che avviene quando, dopo una grande nevicata, se il Comune non provvede a far spalare la neve sulle vie pubbliche, i cittadini volenterosi si organizzano in squadre per fare essi, di loro iniziativa, ciò che la pubblica autorità dovrebbe fare e non fa; e la stessa cosa che avviene, e spesso è avvenuta, quando, a causa di uno sciopero degli spazzini pubblici, i cittadini volenterosi si sono messi a rimuovere dalle strade cittadine le immondizie e in questo modo si sono resi benemeriti della salute di tutti.
Giustamente uno dei difensori che mi hanno preceduto, il collega Taormina, ha detto che questo è un caso di "negotiorum gestio": un caso, si potrebbe dire, di esercizio privato di pubbliche funzioni volontariamente assunte dai cittadini a servizio della comunità e in ossequio al senso di solidarietà civica.
Allora, per impedire anche questo secondo misfatto, arrivano i soliti commissari Lo Corte e Di Giorgi, e questa volta non si limitano alle diffida e questa volta non si limitano alle diffide. Questa volta fanno di più e di meglio: aggrediscono questi uomini mentre pacificamente lavorano a piccoli gruppi dispersi sulla trazzera, strappano dalle loro mani gli strumenti del lavoro, lì incatenano e li trascinano nel fango, tirandoli per le catene come carne insaccata, come bestie da macello.
Bene.
Rimane dunque inteso che digiunare in pubblico è una manifestazione sediziosa; che lavorare gratuitamente per pubblica utilità, per rendere più strada una pubblica strada, è una manifestazione sediziosa.


E a questo punto interviene il giudice istruttore a dare il suo giudizio: "spiccata capacità a delinquere".
E poi riprende la parola il P.M.: "otto mesi di reclusione a Danilo Dolci e ai suoi complici".
Bene.
Ma come può essere avvenuto questo capovolgimento, non dico del senso giuridico, ma del senso morale e perfino del senso comune?
Guardiamo di rendercene conto con serenità.
Al centro di questa vicenda giudiziaria c'è, come la scena madre di un dramma, un dialogo tra due personaggi, ognuno dei quali ha assunto senza accorgersene un valore simbolico.
E’, tradotto in cruda rossa di cronaca giudiziaria, il dialogo eterno tra Creonte e Antigone, tra Creonte che difende la cieca legalità e Antigone che obbedisce soltanto alla legge morale della coscienza, alle "leggi non scritte" che preannunciano l'avvenire.
Nella traduzione di oggi, Danilo dice: "per noi la vera legge e la Costituzione democratica"; il commissario Di Giorgi risponde: "per noi l'unica legge è il test unico di pubblica sicurezza del tempo fascista".
Anche qui il contrasto è come quello tra Antigone e Creonte: tra la umana giustizia e i regolamenti di polizia; con questo solo di diverso, che qui Danilo non invoca leggi "non scritte". (Perché, per chi non lo sapesse ancora, la nostra Costituzione è già stata scritta da dieci anni.)
Chi dei due interlocutori ha ragione?
Forse, a guardare alla lettera, hanno ragione tutt’e due.
Ma a chi spetta, non dico il peso e la responsabilità, ma dico il vanto di decidere, sotto questo contrasto letterale, da che parte è la verità: a chi spetta sciogliere queste antinomie?
Siete voi, o Giudici, che avete questa gloria: voi che nella vostra coscienza, come in un alambicco chimico, dovete fare la sintesi di questi opposti.
E qui affiora il secondo sul quale io mi trovo in dissidio con le premesse affermate dal P.M.:, quando egli ha detto che i giudici non devono tener conto delle "correnti di pensiero", che i testimoni accorsi da tutta Italia hanno fatto passare in questa aula.
Ma che cosa sono le leggi , illustre rappresentante del P.M. se non esse stesse "correnti di pensiero"? Se non fossero questo, non sarebbero che carta morta: se lo lascio andare, questo libro dei codici che ho in mano, cade sul banco come un peso inerte.
E invece le leggi sono vive perché dentro queste formule bisogna far circolare il pensiero del nostro tempo, lasciarvi entrare l'aria che respiriamo, mettervi dentro i nostri propositi, le nostre speranze, il nostro sangue e il nostro pianto.
Altrimenti le leggi non restano che formule vuote, pregevoli giochi da legulei; affinché diventino sante, vanno riempite con la nostra volontà.
Voi non potete ignorare, signori Giudici, poiché anche voi vivete la vita di tutti i cittadini italiani, il carattere eccezionale e conturbante del nostro tempo: che è un tempo di trasformazione sociale e di grandi promesse, che prima o poi dovranno essere adempiute: felici i giovani che hanno davanti a se il tempo per vederle compiute!
Questo è uno di quei periodi, che ogni tanto si presentano nella vita dei popoli, in cui la gloria di poter costruire pacificamente l'avvenire, il vanto di poter guidare entro la legalità questa trasformazione sociale che è in atto e che non si ferma più, spetta soprattutto ai giudici. Nella storia millenaria del nostro paese più volte si sono presentati questi periodi di trapasso da un ordinamento sociale ad un altro, durante i quali l'altissimo compito di adeguare il diritto alle esigenze della nuova società in formazione è stato assunto dalla giurisprudenza: basta pensare ai responsa dei prudentes, che hanno gradualmente fatto vivere nella rigidezza del diritto quiritario lo spirito cristiano trionfante nella legislazione giustinianea, o alle opiniones doctorum, che attraverso la decisione di singoli casi giudiziari hanno introdotto negli schemi del diritto feudale lo spirito umanistico del diritto comune.
Anche oggi l'Italia vive uno di questi periodi di trapasso, nei quali la funzione dei giudici, meglio che quella di difendere una legalità decrepita, è quella di creare gradualmente la nuova legalità promessa dalla Costituzione.
La nostra Costituzione è piena di queste grandi parole preannunziatrici del futuro: "pari dignità sociale"; "rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana"; "Repubblica fondata sul lavoro"; "Diritto al lavoro"; "condizioni che rendano effettivo questo diritto; assicurata ad ogni lavoratore e alla sua famiglia "un'esistenza libera e dignitosa"...
Grandi promesse che penetrano nei cuori e li allargano, e che una volta intese non si possono più ritirare. Come potete voi pensare che i derelitti che hanno avuto queste promesse, e che vi hanno creduto e che chi si sono attaccati come naufraghi alla tavola di salvezza, possono ora essere condannati come delinquenti solo perché chiedono, civilmente senza far male nessuno, che queste promesse siano adempiute come la legge comanda?
Signori Giudici, che cosa vuol dire libertà, che cosa vuol dire democrazia? Vuol dire prima di tutto fiducia del popolo nelle sue leggi: che il popolo senta le leggi dello Stato come le sue leggi, come scaturite dalla sua coscienza, non come imposte dall'alto. Affinché la legalità discenda dai codici nel costume, bisogna che le leggi vengano dal di dentro non dal di fuori: le leggi che il popolo rispetta, perché esso stesso le ha volute così.
Ricordate le parole immortali di Socrate nel carcere di Atene? Parla delle leggi come di persone vive, come di persone di conoscenza. "le nostre leggi, sono le nostre leggi che parlano". Perché le leggi della città possano parlare alle nostre coscienze, bisogna che siano come quelle di Socrate, le " nostre " leggi.
Nelle più perfette democrazie europee, in Inghilterra, in Svizzera, in Scandinavia, il popolo rispetta le leggi perché ne è partecipe e fiero; ogni cittadino le osserva perché sa che tutti le osservano: non c'è una doppia interpretazione della legge, una per i ricchi e una per i poveri!
Ma questa è, appunto, la maledizione secolare che grava sull'Italia: il popolo non ha fiducia nelle leggi perché non è convinto che queste siano le sue leggi. Ha sempre sentito lo Stato con un nemico. Lo Stato rappresenta agli occhi della povera gente la dominazione. Può cambiare il signore che domina, ma la signoria resta: dello straniero, della nobiltà, dei grandi capitalisti, della burocrazia. Finora lo Stato non è mai apparso alla povera gente come lo Stato del popolo.
Da secoli i poveri hanno il sentimento che le leggi siano per loro una beffa dei ricchi: hanno della legalità e della giustizia un'idea terrificante, come di un mostruoso meccanismo ostile fatto per schiacciarli, come di un labirinto di tranelli burocratici predisposti per gabbare il povero e per soffocare sotto le carte incomprensibili tutti i suoi giusti reclami.
Nella prefazione che Norberto Bobbio ha dettato per il libro di Danilo Dolci Banditi a Partinico, è riportato come tipico un episodio."Ho fatto più di quattro domande per avere la pensione -dice il padre.-Niente. Mi mandano a chiamare i carabinieri:-ci vuole questo documento.-Subito facciamo questo documento, subito. Poi mi mandano a chiamare in Municipio e mi dicono che ci voleva stato di famiglia, atto matrimoniale, fede di nascita, fede di morte di mio figlio, tutto. Ci ho fatto tutto. Ci ho mandato in Municipio stesso, da lì a Roma. Niente. Dal 1942. E 12 anni "ca ci cumbattu cu sta pensioni". E la moglie: "Have a cridere che a mia mi ritiraru lu librettu e mi disseru:-Ora se nè pò ire che vossìa have la pensioni".
Questa è la maledizione di Partinico, ma questa è sempre stata anche la maledizione di Italia. In ogni regione d'Italia più o meno è così: le leggi per gli umili non contano. Per avere giustizia dagli uffici amministrativi occorre farsi raccomandare da qualche personaggio importante o strepitare. Ma forse neanche screditare conta; perché se strepita il povero, viene il commissario Di Giorgi che lo porta in prigione.
E allora ecco Danilo:
-Basta con questa maledizione, basta con questa sfiducia; ma basta anche con la violenza. Voi dovete credere nelle leggi; voi dovete credere nella giustizia di chi governa. La legge è come una religione (una religione di cui questa aula giudiziaria è un tempio). Perché la legge faccia i suoi miracoli, bisogna crederci.-
È un ingenuo? È un illuso?
Danilo è stato paragonato a Renzo dei promessi sposi, nella famosa scena dell'osteria.
Ricordate? "pane, abbondanza, giustizia."Lo sente dire da Ferrer, che era una specie di prefetto di quei tempi. Renzo ci crede: anche lui si mette a ripetere "pane, abbondanza, giustizia". E va a finire nelle mani dei birri.
Anche Danilo è andato a finire in prigione. E dunque anche lui soltanto ingenuo? Soltanto un’illuso? No: Danilo è qualche cosa di più. Non dimentichiamo come è cominciata la vicenda di Danilo. Il caso determinante della sua vita è stato l'incontro con un bambino morto di fame. Quando nell'estate del 1952 Danilo ebbe visto morire di fame il figlioletto di Mimma e Giustina Barretta, allora egli si accorse di trovarsi "in un mondo di condannati morte"; e gli apparve chiara l'idea che questo mondo non si redime con la violenza, ma col sacrificio. Fu allora che disse: " su questo stesso letto dove questa creatura innocente è morta di fame, io, che potrei non essere povero, mi lascerò morire di fame come lui, per portare una testimonianza, per dare con la mia morte un esempio, se le autorità non si decideranno a provvedere ". E dopo una settimana di digiuno, che già aveva ridotto Danilo in fin di vita, le autorità finalmente intervennero, non per pietà, ma per liberarsi dalla responsabilità di lasciarlo morire; essi decisero di offrire subito le prime somme occorrenti per pagare i debiti dei pescatori e dei braccianti del luogo e, e per iniziare i lavori di sistemazione delle strade e delle acque. Poi nuovamente si fermarono: ma soltanto così Danilo era riuscito a svegliare il torpore burocratico dei padroni. Ma ecco che qui entra ancora in scena il commissario Di Giorgi, che in questo dramma rappresenta la quotidiana certezza del conformismo, la voce scettica dei benpensanti:
-Danilo Danilo, sono utopie, sono illusioni! ("fanatismo mistico" ha detto ieri il P.M.).
Par che dica, il commissario Di Giorgi: -Danilo, ma chi te lo fa fare? Sei giovane, sei istruito, sei un architetto, uno scrittore. Non sei di queste terre desolate. Torna ai tuoi paesi. Lascia i poveri di Partinico in compagnia della loro miseria e della loro fame... Danilo, chi te lo fa fare?-
La voce del buonsenso, la voce dei benpensanti; ma Danilo non è un benpensante, non segue la rassegnata è soddisfatta voce del buonsenso.
Danilo mi fa venire in mente la storia di fra Michele Minorita. È un'antica cronaca fiorentina, rievoca anche la figura di un monaco, appartenente all'ordine dei "fraticelli della povera vita", che praticavano la povertà assoluta che predicavano che nel Vangelo Cristo e gli apostoli non avevano mai riconosciuto la proprietà privata. Il Papa Giovanni XXII condannò questa affermazione come eresia: e fra Michele per averla predicata fu condannato, nel 1389, al rogo.
La cronaca racconta la prigionia e il processo e descrive il corteo che accompagnò dalla prigione al supplizio il condannato e le sue soste lungo la strada, come se fossero le stazioni della Via Crucis. Dal carcere del Bargello per arrivare al rogo egli passa, scalzo e vestito di pochi cenci, in mezzo agli armigeri, per le vie di Firenze. Due ali di popolo lo stanno a vedere: e gli lanciano al passaggio frasi di incitamento e di scherno, invocazioni esaltate o beffardi consigli. I più lo consigliano all'abiura: "sciocco, pentiti, pèntiti, non voler morire, campa la vita!". Ed egli risponde, mentre passa, senza voltarsi: "pentitevi voi de’ peccati, pentitevi delle usure, delle false mercantzie". (Forse tra quel pubblico che lo incitava a pentirsi e a non voler morire c'era anche, pieno di buone intenzioni, il commissario Di Giorgi: "Illusioni, utopie, chi te lo fa fare?".)
A un certo punto, quando ormai è vicino al rogo, poiché ancora uno dei presenti torna a gridargli: "Ma perché ti ostini a voler morire?", egli risponde: "Io voglio morire per la verità: questa è una verità, ch’io ho albergata in me, della quale non se ne può dare testimonio se non morti". E con queste parole sale sul rogo; ma proprio mentre stanno per dar fuoco, ecco che arriva un messo dei Priori a fare un ultimo tentativo, per persuaderlo a smentirsi e così salvargli la vita. Ma egli dice di no. E uno degli armigeri, di fronte a questa fermezza, domanda: "ma dunque costui ha il diavolo addosso?"; al che l'altro armigero, nel dar fuoco, risponde (e par di sentire la sua voce strozzato dal pianto): "Forse ci ha Cristo".


Per questo, signori Giudici, voi avete visto le "correnti di pensiero", che in questo momento sono vicine a Danilo, sfilare in quest’aula a testimoniare. Esse non sono arrivate qui per esercitare su di voi pressioni o intromissioni sulla vostra coscienza intemerata e fiera: sono venute soltanto per testimoniare la loro solidarietà a Danilo. Ma questa solidarietà della cultura italiana per Danilo Dolci è un fatto, che voi non potete ignorare; siete anche voi uomini del nostro tempo, e anche voi sentite il dovere di valutarle, di spiegarle storicamente.
Come si può spiegare questa solidarietà? Certamente voi avete avvertito nelle parole di questi testimoni non soltanto un senso di solidarietà e quasi di complicità con Danilo, ma altresì un senso più profondo, quasi direi di umiliazione e di contrizione di questa cultura: per aver tardato tanto ad accorgersi di questi dolori; per aver atteso, prima di accorgersi, che fosse Danilo a dare l'esempio.
Il carattere singolare ed esemplare di Danilo Dolci e proprio qui: di questo uomo di cultura, che per manifestare la sua solidarietà ai poveri non si è accontentato della parola parlata o scritta, dei comizi, degli ordini del giorno e dei messaggi; ma ha voluto vivere la loro vita, soffrire la loro fame, dividere il loro giaciglio, scende nella loro forzata abiezione per aiutarli a ritrovare e a reclamare la loro dignità e la loro redenzione.
Questa è la singolarità di Danilo: qualcuno potrebbe dire l'eroismo; qualcun altro potrebbe anche essere tentato di dire la santità.
Qui e fuori di qui siamo in molti a pensare e a ripetere che la cultura, se vuol essere viva e operosa, qualcosa di meglio dell'inutile e arida erudizione, non deve appartarsi dalle vicende sociali, non deve rinchiudersi nella torre d'avorio senza curarsi delle sofferenze di chi batte alla porta di strada. Tutto questo lo diciamo e lo scriviamo da decenni; ma tuttavia siamo incapaci di ritrovare il contatto fraterno con la povera gente. Siamo pronti a dire parole giuste; ma non sappiamo rinunciare al nostro pranzo, al nostro comodo letto, alla nostra biblioteca appartata e tranquilla. Tra noi e la gente più umile resta, per quanto ci sforziamo, come uno schermo invisibile, che ci rende difficile la comunicazione immediata. Il popolo ci sente come di un altro ceto: sospetta che questa fraternità di parole sia soltanto oratoria.
Per Danilo no. L'eroismo di Danilo è questo: dove più la miseria soffoca la dignità umana, egli ha voluto mescolarsi con loro e confortarli non con i messaggi ma con la sua presenza; diventare uno di loro, dividere con loro il suo pane e il suo mantello, e chiedere in cambio ai suoi compagni una delle loro pale e un po' di fame.
Questo intellettuale triestino, che se avesse voluto avrebbe potuto costruirsi in breve, coi guadagni del suo lavoro di artista, una vita brillante e comoda in qualche grande città e una casa piena di quadri e di libri, è andato a esiliarsi a Partinico, nel povero paese rimasto impresso nei suoi ricordi di bambino, e si è fatto pescatore affamato e spalatore della trazzera per far intendere a questi diseredati, con la eloquenza dei fatti, che la cultura è accanto a loro, che la sorte della nostra cultura è la loro sorte, che siamo, scrittori e pescatori e sterratori, tutti cittadini dello stesso popolo, tutti uomini della stessa carne. Egli ha fatto quello che nessuno di noi aveva saputo fare. Per questo sono venuti qui da tutta Italia gli uomini di cultura a ringraziarlo: a ringraziarlo di questo esempio, di questo riscatto operato da lui, agnus qui tollit peccata di una cultura fino a ieri immemore dei suoi doveri.
Certo, Danilo Dolci non è un personaggio comodo per i commissari di pubblica sicurezza. Io mi immagino i loro discorsi: "In fondo, un brav'uomo. Ma uno scervellato, un seccatore, un piantagrane".
Mi viene in mente una lettera scritta pochi giorni fa dal mio amico Jemolo a una altissima autorità. Dopo avere attestato l'altezza morale di Danilo, egli continuava: "Certo sarà noioso per le autorità costituite; ma pensa quanto lo saranno stati a loro tempo San Francesco o San Bernardino da Siena".
Si, i santi sono noiosi: e in generale, anche senza disturbare santi, è certo che in questa società compressa da una crosta di accomodante scetticismo sono noiosi in generale gli uomini onesti, gli uomini che prendono le cose sul serio. Per chi sta bene e ha la vita facile, sono insopportabili questi importuni che ricordano col loro esempio, fastidioso come un rimprovero vivente, che nel mondo esiste la onestà e la dignità.
Imparai da ragazzo su qualche antologia un episodio della vita di un santo; in questi giorni mi è tornato in mente. Vi confesso che a Firenze, prima di partire per venir qui, invece di consultare i codici per prepararmi a questa discussione, mi sono messo a ricercare nelle vite dei santi il testo preciso di questo episodio: mi pareva di ricordarmi che fosse nella vita di San Filippo Neri ma non l'ho trovato. Forse è nella vita di Don Bosco.
Certo, o l'uno o l'altro, si trattava di un santo: ma finché fu vivo era considerato come un terribile spettatore dei ricchi, alle cui porte andava a battere ogni giorno per chiedere carità per i poveri. A tutti i momenti se lo ritrovavano dinanzi: lì perseguitava con le sue preghiere, fino a che anche i più avari, pur di levarselo di torno, gli davano quello che chiedeva: e lui correva a portare pane agli affamati.
Un giorno andò a bussare alla porta di un signore ricchissimo, ma particolarmente iracondo e prepotente: e tanto insistè, nonostante i ripetuti dinieghi, che questo alla fine, gonfio d’ira, lo investì di ingiurie e lo prese a schiaffi. Il santo stette impassibile a ricevere le percosse senza muoversi, come se fosse il pagamento di una cosa dovuta: senza neanche ripararsi il viso con le mani (forse lo fece per non essere imputato, dal P.M. di quei tempi, di "resistenza"). E alla fine, quando quel prepotente si fu sfogato, riprese candidamente: "sta bene, questi sono per me: il conto torna. Ma ora bisogna riprendere il nostro discorso: bisogna che tu mi dia i denari per i poveri...".
Io mi auguro che il P.M. ritrovi per conto suo il testo originale dove questo episodio è raccontato per esteso. Siamo d'accordo: anche Danilo è un seccatore: per questo gli hanno messo i ferri; per questo lo hanno arrestato; per questo lo hanno trascinato nel fango; per questo lo vorrebbero tenere per altri otto mesi in prigione.
E sia pure. E poi? E i disoccupati di Partinico? E la fame di Partinico? I bambini che muoiono di fame a Partinico? Che darete ad essi? Che parola di speranza di conforto uscirà per essi dalla vostra sentenza?
No, questa non è, onorevole signor P.M., una "comunissima vicenda giudiziaria". Questo non è il processo di Danilo Dolci. Su quella panca degli imputati non c'è lui; altre colpe, altre incurie, altre crudeltà, altri delitti siedono su quella panca: tutti li conosciamo anche voi li conoscete.
Questa non è la causa di Danilo; e neanche di Partinico; e neanche della Sicilia. E’ la causa del nostro Paese: del nostro Paese da redimere e da bonificare.
Si parla tra i giuristi di "bonifica costituzionale"; siate voi, magistrati, gli antesignani di questa bonifica. Nella Maremma della mia Toscana, nelle terre incoltivate che si distribuiscono ai contadini, per poter arrivare a seminare bisogna prima spezzare la crosta di tufo pietroso che vi è depositata da due millenni di alluvioni; per spezzarla occorrono i trattori: e solo così, sotto quella crosta, si trova la terra fertile e fresca, e in essa, ancora intatte le tombe dei nostri padri etruschi.
Bisogna in tutta Italia spezzare nello stesso modo questa crosta di tradizionale feudalesimo e di inerte conformismo burocratico che soffoca la nostra società: e ritrovare sotto la crosta spezzata il popolo vivo, il popolo sano, il popolo fertile, il popolo vero del nostro Paese: e le tradizioni di saggia ed umana equità che esso ha conservato dai lontani millenni.
Vorrei, signori Giudici, che voi sentiste con quale ansia migliaia di persone in tutta Italia attendono che voi decidiate con giustizia, che vuol dire anche con indipendenza e con coraggio questa causa eccezionale: e che la vostra sia una sentenza che apra il cuore della speranza, non una sentenza che ribadisca la disperazione.
Colleghi e amici siciliani, noi siamo venuti in Sicilia, e vi ringraziamo di averci consentito di essere qui al vostro fianco, per dirvi che tutto quello che vi addolora, tutto quello che vi offende, addolora e offende anche noi. Questa vostra angoscia è anche la nostra angoscia: anche noi ci sentiamo bruciare dal vostro sdegno. Vogliamo anche noi prendere sulle nostre spalle, con l'aiuto della Costituzione, il destino del nostro Paese.
Qualche giorno fa, sfogliando un giornale straniero, vi ho letto una notizia dall'Italia che mi ha fatto arrossire. C'era scritto, a proposito di questo processo di Danilo, questo titolo: "In Italia a chi chiede rispetto della Costituzione si nega la libertà provvisoria". Non è vero, non è vero! Signori Giudici, diteci che non è vero! Permetteteci di dire agli stranieri che non è vero!
Voi dovete aiutarci, signori Giudici a difendere questa Costituzione che è costata tanto sangue e tanto dolore voi dovete aiutarci a difenderla, e a far sì che si traduca in realtà.
Vedete, in quest’aula, in questo momento, non ci sono più giudici e avvocati, imputati e agenti di polizia: ci sono soltanto italiani: uomini di questo Paese che finalmente è riuscito ad avere una Costituzione che promette libertà e giustizia.
Aiutateci, signori Giudici, colla vostra sentenza, aiutate i morti che si sono sacrificati e aiutate i vivi, a difendere questa Costituzione che vuol dare a tutti i cittadini del nostro Paese pari giustizia è pari dignità!

Danilo Dolci trascorse circa due mesi nel carcere dell'Ucciardone, essendogli stata negata la liberta' provvisoria per la "spiccata capacita' a delinquere". Al termine del processo fu condannato insieme ai cinque coinputati per invasione di terreni.

mercoledì 8 settembre 2010

Silenzio


Tacciono quasi tutti i media sull'omicidio di Angelo Vassallo, sindaco di Pellica nel Cilento (via Cosimo).

giovedì 19 agosto 2010

Obbedienza e Antigone in Palestina


Maria G. Di Rienzo ha messo a disposizione nella sua traduzione la seguente lettera aperta pubblicata come annuncio a pagamento sul quotidiano israeliano "Haaretz" il 6 agosto 2010 - da TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 280 del 12 agosto 2010, via Walter Fiocchi


Venerdi' 23 luglio 2010 abbiamo fatto un viaggio, una dozzina di donne ebree israeliane ed una dozzina di donne palestinesi della West Bank con quattro loro figli, fra cui un neonato. Abbiamo viaggiato in auto attraverso le colline interne del paese (“Shfela”) e fatto un giro turistico di Tel Aviv e Yaffa insieme. Abbiamo pranzato in un ristorante, preso il sole e passato veramente dei bei momenti sulla spiaggia. Siamo tornate attraverso Gerusalemme ed abbiamo guardato la citta' vecchia da lontano.
La maggior parte delle nostre ospiti palestinesi non aveva mai visto il mare (che e' a meno di 60 km dalle loro case). La maggior parte di esse non ha mai avuto la possibilita' di pregare nei propri luoghi sacri a Gerusalemme - Al Quds, e li hanno osservati con desiderio da Monte Scopus.
Nessuna delle nostre ospiti aveva un permesso di ingresso in Israele. Le abbiamo fatte passare attraverso i posti di blocco nelle nostre automobili, sapendo di violare la “Legge di ingresso in Israele”. Lo annunciamo qui apertamente.
Questo viaggio comune e' stato organizzato quale risposta alla denuncia presentata dallo stato alla polizia contro una di noi, Ilana Hammerman, per un viaggio simile che lei ha fatto con tre giovani donne palestinesi. Abbiamo deciso di agire nello spirito di Martin Luther King e di mostrare simbolicamente che noi non riconosciamo leggi immorali e ingiuste.
Non riconosciamo legalita' alla “Legge di ingresso in Israele”, una legge che permette ad ogni israeliano ed ogni ebreo di viaggiare liberamente in qualsiasi parte della terra fra il Mediterraneo ed il fiume Giordano, ma che nega lo stesso diritto ai palestinesi, nonostante questo sia anche il loro paese. Questa legge li spoglia del diritto di visitare citta' e villaggi lungo la “Linea Verde”: luoghi in cui essi hanno profonde radici familiari, di eredita' culturale e di legami nazionali.
Percio', abbiamo obbedito alla voce della nostra coscienza e ci siamo prese la liberta' di condurre delle donne in alcuni di questi luoghi. Noi e loro ci siamo assunte il rischio insieme, con chiarezza di mente e forte convinzione.
In tal modo, noi israeliane abbiamo guadagnato un altro grande privilegio, il fare esperienza nella nostra nazione, una nazione che vive sulla sua spada, di uno dei giorni piu' belli ed emozionanti della nostra vita: aver conosciuto coraggiose donne palestinesi, piene di gioia di vivere, l'aver passato del tempo assieme a loro ed essere state libere assieme a loro, anche se per un solo giorno.
Non abbiamo portato in auto “terroriste” ne' “nemiche”, ma esseri umani, nostre simili. Le autorita' ci separano con barriere e posti di blocco, regole e regolamenti. Non per salvaguardare la nostra sicurezza, ma per santificare l'ostilita' e perpetuare il controllo di terra illegalmente sottratta ai legittimi proprietari. Questo ladrocinio di massa e' stato compiuto in violazione di tutte le leggi e convenzioni internazionali; viola i valori universali dei diritti umani, la giustizia e l'umanita'.
Non siamo noi a violare la legge, lo stato di Israele e' stato il violatore in capo per decenni. Non siamo noi, donne con una consapevolezza civile e democratica, ad esserci spinte troppo in la'. E' lo stato di Israele che ha passato i limiti e che ci sta conducendo in un precipizio e forse persino all'autodistruzione.
Chiamiamo i cittadini di Israele ad ascoltare le parole di Henry David Thoreau, un pensatore americano del XIX secolo, che nel suo famoso trattato sulla Disobbedienza civile scriveva: “Quando un sesto della popolazione di una nazione, che si suppone essere il rifugio della liberta', e' in schiavitu', ed un intero paese e' ingiustamente rovesciato e conquistato da un esercito straniero, e reso soggetto alla legge marziale, io penso che non sia mai troppo presto per gli uomini onesti ribellarsi e rivoluzionare la situazione. Cio' che rende questo dovere ancora piu' urgente e' il fatto che il paese cosi' conquistato non e' il nostro, e' nostro l'esercito invasore”.
Ascoltate queste parole, guardate come si adattano bene alla situazione in cui la nostra nazione ha portato se stessa, e a quello che abbiamo fatto.

Ilana Hammerman, Jerusalem
Annelien Kisch, Ramat Hasharon
Esti Tsal, Tel Aviv
Daphne Banai, Tel Aviv
Klil Zisapel, Tel Aviv
Michal Pundak Sagie, Herzlia
Nitza Aminov, Jerusalem
Irit Gal, Jerusalem
Ofra Yeshua-Lyth, Tel Aviv
Ronni Eilat, Kfar Saba
Ronit Marian-Kadishai, Ramat Hasharon
Ruti Kantor, Tel Aviv

domenica 23 maggio 2010

Aspetti oscuri


Cosi' il Capo dello Stato Giorgio Napolitano ricordando a Palermo l'omicidio di Falcone, della moglie e della sua scorta il 23 Maggio 1992:

A diciotto anni dal barbaro agguato di Capaci, il ricordo dell'appassionato, eroico impegno di Giovanni Falcone nella difesa delle istituzioni e dei cittadini dalla sopraffazione criminale resta indelebile in tutti noi e costituisce prezioso stimolo per la crescita della coscienza civica e della fiducia nello stato di diritto. Meritano il massimo sostegno le indagini tuttora in corso su aspetti ancora oscuri del contesto in cui si svolsero i fatti devastanti di quel drammatico periodo. Esse potranno consentire di sgombrare il campo da ogni ambiguità sulle circostanze e le responsabilità di quegli eventi, rispondendo all'ansia di verità che accomuna chi ha sofferto atroci perdite e l'intero paese

E davvero i "nuovi" sviluppi sono inquietanti, fatti di pezzi di stato da una parte e dall'altra della barricata, da una parte e dell'altra del telecomando che ha fatto saltare in aria con Falcone gran parte della speranza di chi spera ancora nella sconfitta della criminalita' organizzata. Ma la speranza e' aver fiducica anche nelle curve.

giovedì 25 marzo 2010

Zerozerocinque


Parte da oggi anche in Italia la Campagna internazionale di raccolta di firme per sollecitare i capi di Stato e di Governo del G20 a varare - nel prossimo meeting fissato per giugno in Canada - una tassa sulle transazioni finanziarie il cui gettito possa essere destinato a pagare parte dei costi della crisi innescata dalla finanza speculativa. La tassa e' di importo molto contenuto, compreso tra lo 0,01 e lo 0,1 per cento di ogni transazione, e potrebbe finanziare politiche sociali ed ambientali efficienti e necessarie nei Paesi sviluppati e ridare ossigeno alla cooperazione internazionale per lo sviluppo dei Paesi del Sud mondo, vittime di una crisi della cui genesi non hanno alcuna responsabilità.

La Campagna - lanciata oggi in occasione del summit dei Capi di Stato e di Governo dell'UE e del meeting delle Nazioni Unite dedicato a Finanza e Sviluppo - è promossa in Italia da Social Watch (che riunisce Campagna per la Riforma della Banca Mondiale, Ucodep, Fcre, Lunaria, WWF Italia, Acli, ARCI/ARCS, Mani Tese), Sbilanciamoci, Sistema Banca Etica, ATTAC Italia, FIBA CISL, CISL, Consorzio Goel, Lega Missionaria studenti, CVX, Coalizione Italiana contro la Poverta-GCAP Italia, FOCSIV - Volontari nel Mondo, Comitato Italiano per la Sovranità Alimentare, Valori, AMISnet, Azione Cattolica.

Le firme raccolte saranno inoltrate al Governo Italiano e in particolare al ministro dell'Economia On. Giulio Tremonti per chiedergli di farsi promotore, a livello nazionale e in tutte le sedi internazionali appropriate, dell'introduzione di una Tassa sulle Transazioni finanziarie. Tasse di questo tipo già esistono in alcuni Paesi e l'idea di adottarle su scala globale si sta facendo sempre più strada tra i leader di molti Paesi Europei e non solo. Si stima che tassando dello 0,05% (un valore intermedio nella forbice tra le proposte più severe che puntano allo 0,1 e le più morbide che propongono lo 0,01) ogni compravendita di titoli e strumenti finanziari nella sola UE si potrebbe registrare un gettito tra i 163 e i 400 miliardi di dollari annui, mentre a livello mondiale il gettito sarebbe compreso tra 400 e 946 miliardi di dollari l'anno. Cifre importanti, che permetterebbero agli Stati di colmare gradualmente quelle voragini che si sono aperte nei conti pubblici con i salvataggi delle grandi banche e con le misure di sostegno all?economia rese necessarie per contrastare la pesante crisi economica provocata dagli eccessi della finanza speculativa (secondo stime recenti del Fondo Monetario Internazionale il costo globale della crisi avrebbe raggiunto i 13.620 miliardi di dollari a livello globale).

Il gettito di una piccola tassa sulle transazioni finanziarie potrebbe permettere agli Stati di avere risorse a disposizione per attuare politiche sociali, ambientali e di cooperazione internazionale efficaci ed efficienti e più che mai necessarie visto l'elevatissimo costo sociale della crisi.

«Non solo - spiega Andrea Baranes, ricercatore della Campagna per la Riforma della Banca Mondiale e di Social Watch - la tassa sulle transazioni finanziarie sarebbe anche un ottimo strumento per permettere alla politica di regolamentare i mercati finanziari. Una tassazione dello 0,05%, infatti, non scoraggerebbe certo quegli investitori che operano sui mercati con ottica di lungo periodo e che mettono i propri risparmi a disposizione di aziende che operano nel mondo dell'economia reale. Essa sarebbe tuttavia un valido deterrente per chi usa la finanza solo per speculare: quegli operatori che comprano e vendono strumenti finanziari centinaia o anche migliaia di volte in un giorno, rendendo i mercati instabili e volatili, sarebbero costretti a pagare lo 0,05% su ogni transazione».

«Il ricorso imponente alla finanza speculativa da parte delle grandi banche d'affari è diventato elemento prevalente rispetto al ruolo di sostegno al lavoro, alle famiglie e allo sviluppo. Il sistema finanziario ha creato un evidente squilibrio economico con un rischio che è stato caricato alla collettività, ai contribuenti - sottolinea Maurizio Petriccioli, segretario della Cisl - che ancora una volta sono stati chiamati ad intervenire per salvare le stesse banche. La tassa sulle transazioni finanziarie di carattere speculativo avrebbe il pregio, come affermato dall'economista Paul De Grauwe, di far pagare un prezzo assicurativo contro tale rischio. Ne sosteniamo con forza l'introduzione per investire in coesione sociale, nel lavoro e per contrastare la povertà».

Qui per firmare l'appello al G20, e il sito zerozerocinque.it per tutte le informazioni.

mercoledì 24 marzo 2010

La giustizia dell'amore


E' un'imitazione dell'amore quando si cerca di offuscare con l'elemosina quello che bisogna fare con la giustizia

Il 24 marzo 1980, 30 anni fa, mentre stava celebrando la Messa nella cappella dell'ospedale della Divina Provvidenza, Monsignor Oscar Romero, arcivescovo di El Salvador, venne ucciso mentre elevava l'ostia della comunione da un sicario appartenente ad uno squadrone della morte agli ordini del maggiore Roberto D’Aubuisson, leader del partito di estrema destra Arena.
Fino alla sua nomina a Vescovo, Romero fu considerato rappresente del lato conservatore della Chiesa sudamericana, fedele alla tradizione romana e timoroso di aprirsi al fermento che veniva dalla teologia della liberazione e dai movimenti di base. Questo gli aveva fatto guadagnare la stima dell'oligarchia del suo Paese, e gli spiano' la strada al soglio vescovile mentre nel paese si susseguono colpi di stato che lasciano il potere nelle mani dell'oligarchia e dei militari. Nell'ottobre 1974 viene nominato vescovo della diocesi di Santiago de Maria, in una delle zone piu' povere del paese. Il contesto politico e sociale è caratterizzato soprattutto dalla repressione contro i contadini organizzati, e il contatto con la vita reale della popolazione, stremata dalla povertà e oppressa dalla feroce repressione militare che voleva mantenere la classe più povera soggetta allo sfruttamento dei latifondisti locali, provocano in lui una profonda conversione, sia nelle convinzioni teologiche che nelle scelte pastorali. I fatti di sangue sempre più frequenti che colpiscono persone e collaboratori a lui cari, lo spingono alla denuncia delle situazioni di violenza che contraddistinguono il paese.
La nomina ad arcivescovo di San Salvador, il 3 febbraio 1977, lo trova ormai pienamente schierato dalla parte dei poveri, e in aperto contrasto con le stesse famiglie che lo sostenevano e che auspicavano in lui un difensore dello status quo politico ed economico: “Quando do ai poveri da mangiare, dicono che sono un bravo vescovo. Se chiedo perché i poveri non hanno da mangiare dicono che sono un comunista”. Lo stesso giorno della sua elezione l’esercito spara su cinquantamila persone riunite in piazza per protestare contro dei brogli elettorali. Un centinaio di persone che si erano rifugiate nella chiesa del Rosario muoiono soffocate dai lacrimogeni lanciati dai militari. L'episodio della morte di p. Rutilio Grande, gesuita e parroco di aguilara, centro agricolo poverissimo, assassinato appena un mese dopo il suo ingresso in diocesi, diventa l'evento che apre pienamente la sua azione di denuncia profetica, che porterà la chiesa salvadoregna a pagare un pesante tributo di sangue. L'esercito, guidato dal partito allora al potere, arriva anche a profanare ed occupare le chiese, come ad Aguilares, dove vengono sterminati più di 200 fedeli lì presenti. Le sue catechesi, le sue omelie, trasmesse dalla radio diocesana, vengono ascoltate anche all'estero, facendo conoscere a moltissimi la situazione di degrado che la guerra civile stava compiendo nel Paese. Nel febbraio 1980 compie un viaggio in Europa per ritirare alcuni riconoscimenti, e incontra Giovanni Paolo II per comunicargli le proprie preoccupazioni di fronte alla terribile situazione che il suo paese sta attraversando. Nel discorso all'Universita' di Lovanio diove ritira una laurea Honoris Causa ricorda: "Negli ultimi tre anni, la chiesa di El Salvador è stata perseguitata. È importante chiederci perché. Notate: non è stato perseguitato un sacerdote qualsiasi, né attaccata una qualunque istituzione; si è perseguitato e attaccato quella parte di chiesa che si è posta al fianco del popolo povero e ne ha preso le difese. La persecuzione è la conseguenza di questa scelta di assumere il destino dei poveri. La vera persecuzione è diretta contro il popolo povero, che oggi è il Corpo di Cristo nella storia. Popolo crocefisso come Cristo, perseguitato come il Servo di Jahvè. I poveri completano nel proprio corpo ciò che manca alla Passione di Cristo. Quando la chiesa si organizza e si riunisce attorno alle speranze e alle angosce dei poveri, essa subisce la stessa sorte di Cristo e dei poveri: la persecuzione". Poche settimane dopo l’ultima omelia gli costò la vita: aveva invitato i soldati all’obiezione di coscienza di fronte alle direttive di uccidere contadini e sacerdoti, padri gesuiti e sindacalisti, perché accusati di essere «comunisti» a causa della richiesta di equità economica e sociale: "in nome di Dio, in nome di questo popolo sofferente, i cui lamenti salgono al cielo ogni giorno più tumultuosi, vi supplico, vi chiedo, vi ordino, in nome di Dio: cessi la repressione!".
Da quell’ultima messa sono trascorsi trent’anni, durante i quali sono stati nominati 456 santi e 1288 beati ma non Monsignor Romero, la cui causa di beatificazione e' aperta dal 1997. D’Aubuisson, mandante dell'assassinio e impunito per i suoi crimini, nel 1984 ricevette a Washington prima di morire di cancro un’onorificenza da parte di alcune organizzazioni conservatrici per il suo “contributo alla lotta contro il comunismo e per la libertà”.

giovedì 21 gennaio 2010

Salvarne cento per salvarne uno


Eccola qua la legge per il processo breve appena approvata dal Senato della Repubblica. Che snellira' la giustizia italiana, senza far altro che annullare i processi in ritardo come fanno gli svizzeri coi treni. Che, ci dicono dal PDL, non sara' una legge ad personam (casomai sarebbe la giustizia ad essere "contra personam") e sara' utile a tutti. Salvo poi dirci anche che impatta solo sull'1% dei processi. La verita' e' che e' incostituzionale, viene spacciata per essere uno strumento per velocizzare i processi mentre invece ne interrompe centinaia, e che serve unicamente per salvare il fondoschiena al sultano e a qualche suo sgherro, con buona pace di chi vorrebbe veder pagare i delinquenti e usare i soldi buttati via per qualcosa di utile per i cittadini. Cosi' Concita De Gregorio per l'Unita':

Un'amnistia penale e contabile. Una legge cucita come un abito su misura per salvare il presidente del Consiglio che nega giustizia a tutti quei cittadini che vedranno dichiarati morti processi non ancora conclusi. Una norma che salva la casta dal dovere di pagare per i reati contabili: un danno erariale enorme per lo Stato per mano di un governo che non è in grado di abbassare le tasse come promesso ma che rinuncia a 500 milioni di euro da politici e società che abbiano commesso reati contabili e amministrativi. La lista dei fortunati è lunghissima. Comprende tra gli altri l'estensore del testo senatore Giuseppe Valentino, che visto l'andazzo generale non ha avuto problemi a contribuire a scrivere una legge che andasse bene anche per sé. Valentino ha un giudizio pendente davanti alla Corte dei Conti del Lazio per una storia di sprechi e consulenze quando era sottosegretario alla Giustizia con il Guardasigilli Roberto Castelli (anche lui beneficiario della legge, come vi avevamo annunciato, e anche lui suo autore, in quanto membro della commissione Giustizia del Senato).

Moltiplicandosi per metastasi ieri nell'aula del Senato il cancro del conflitto d'interessi, e la volontà della maggioranza di aggirare la Costituzione, ha prodotto un mostro. Pur di risolvere il problema personale di Silvio Berlusconi e, nello stesso tempo, per evitare di andare a sbattere contro la violazione dell'articolo 3 della nostra Carta fondamentale (quella che sancisce il principio di uguaglianza) è stata allargata a dismisura, ben oltre il campo del diritto penale, la norma salvapremier chiamata "processo breve". Con questo brillante risultato: non solo decine di migliaia di cittadini, vittime di reati, non avranno più giustizia, ma lo Stato perderà una cifra che si aggira attorno al mezzo miliardo di euro. Per dare un'idea a chi non avesse dimistichezza con questi ordini di grandezza: sono 100 milioni in più di quanto il governo ha racimolato con l'ultima Finanziaria per le università. Sono cinque volte la cifre stanziata per l'agricoltura. Sono il doppio dei fondi destinati all'adeguamento antisismico delle scuole dell'intero Paese.

martedì 19 gennaio 2010

Pugno di ferro


Via Repubblica Milano, le statistiche delle condanne per il nuovo reato di immigrazione clandestina nel Milanese: finora nessuna sentenza ha disposto l'espulsione. Ancora una volta i proclami siano preferiti alle soluzioni e all'approfondimento dei problemi. L'articolo di Davide Carlucci e Franco Vanni:

Cinquecento richieste di archiviazione per il reato di clandestinità inviate dalla procura al giudice di pace nell’ultimo mese. Oltre un anno di attesa per fissare un processo a chi viene sorpreso senza permesso di soggiorno. Arresti sempre meno frequenti. E nessuna sentenza di allontanamento emessa finora, a causa delle difficoltà nell’organizzazione dei viaggi di rimpatrio. Dopo cinque mesi dal varo del pacchetto sicurezza, a Milano gli effetti concreti dell’introduzione del reato di clandestinità sono vicini allo zero. «Lo scorso autunno ci venivano portati da processare una settantina di stranieri al mese, già in stato di arresto per altri reati — dice Tommaso Cataldi, responsabile delle sezioni Immigrazione e Penale del giudice di pace — ma da dicembre la procura ha cominciato a chiedere per tutti l’archiviazione». La macchina si è fermata? Per la procura le cose stanno un po’ diversamente: «Gli immigrati che si macchiano solo del reato di clandestinità continuiamo a mandarli a giudizio — spiega il pm Riccardo Targetti — per gli altri, invece, preferiamo contestare l’aggravante, che è punita con una pena più alta, o comunque il reato più grave commesso. Il vero problema è che le forze dell’ordine hanno rallentato il numero degli arresti probabilmente perché impegnate in altre emergenze». A determinare lo stop delle udienze è la differenza d’i nterpretazione della norma sulla clandestinità tra pm e giudici: se un cittadino straniero irregolare è indagato per un reato più grave (come lo spaccio di stupefacenti o il furto, ad esempio), la procura considera la clandestinità come aggravante nel processo. E quindi non chiede l’imputazione per il nuovo reato di “permanenza irregolare in Italia”, come invece previsto dal decreto Maroni. L’approccio si traduce nelle centinaia di richieste di archiviazione giunte agli uffici di via Francesco Sforza a cavallo di Natale, tutte puntualmente respinte. «A nostro avviso — spiega Cataldi — visto che la clandestinità è prevista come reato, quei processi vanno fatti comunque». Nel rifiutare l’archiviazione, il giudice di pace ordina al pm di formulare l’imputazione “entro dieci giorni”. «Lo facciamo puntualmente», assicura Targetti. Ma visti i tempi lunghi della giustizia, per ora nessuno di quei 500 stranieri irregolari già indagati per altri reati risulta imputato per clandestinità. La differenza di interpretazione fra procura e giudice è solo l’ultimo pasticcio nell’applicazione di una legge che non sembra funzionare. «Aspettiamo la pronuncia della Cassazione per capire come orientarci — dice Targetti — per noi le due imputazioni non possono coesistere: o si contesta il reato di clandestinità o l’aggravante. E comunque, bisogna dare precedenza ai fascicoli con delle vittime come le violenze, gli incidenti, le ingiurie, le diffamazioni: per la clandestinità non ci sono persone offese». Nell’ultimo mese si sono cominciate a celebrare le prime udienze agli immigrati scoperti senza permesso di soggiorno. Quelli, cioè, che non hanno altra colpa se non quella di essere clandestini, e sono stati scoperti dalle forze dell’ordine e dai vigili durante i controlli “ordinari” o sui mezzi pubblici. Le cause fatte sinora sono una decina, ma in nessuna l’imputato era presente, perché scappato o comunque non reperibile. E tutte si sono concluse con un rinvio per eccezioni di costituzionalità, richieste di termini da parte della difesa o difetti di notifica. Lo straniero scoperto senza permesso ma non indagato per altri reati, non andrà a processo prima dell’inizio del 2011. Per mancanza di personale e risorse, infatti, procura e giudice di pace non riescono a fare più di 20 cause per clandestinità al mese. E l’e sito di quelle cause lontane, comunque, è già prevedibile: il rinvio. «Per i giudici è impossibile emettere sentenze di allontanamento dello straniero — spiega Vito Dattolico, coordinatore dei giudici di pace — organizzare i viaggi di rimpatrio è costoso e complicato: la questura non dà l’ok». Gli unici “clandestini” che vanno a processo, sono quelli che finiscono alle direttissime. Previste, però, solo in caso di arresto. Per altri reati.

venerdì 13 novembre 2009

Attuare la Costituzione


Il provvedimento intende attuare il principio della ragionevole durata dei processi, sancito sia nella convenzione europea dei diritti dell’uomo (art.6), che nella Costituzione (art.111).
(Dalla relazione accompagnatoria al disegno di legge sulla durata dei processi)

Cosi' recita la relazione accompagnatoria all'ennesima legge ad personam varata dalla destra e che sta per approdare alle Camere per la discussione, il disegno di legge sulla durata dei processi (qua il testo completo). L'ennesima vergogna spacciata per altro per applicazione della carta costituzionale.
In pratica il disegno di legge prevede che dopo due anni per ogni grado di giudizio i reati si estinguano per prescrizione se l'accusato e' incensurato (ma non se questi ha una qualsivoglia condanna minore di qualunque genere) e se la pena e' inferiori ai dieci anni. Sono previste una serie di eccezioni per reati particolarmente gravi e dannosi per la collettivita', tra i quali non figura, guarda caso, nessuno di quelli relativi ai processi di Berlusconi quali corruzioni e reati fiscali e finanziari, ma ad esempio fanno bella mostra di se' i reati previsti nel testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero: al razzismo non si rinuncia neanche per le leggi ad personam.
Quello che indigna piu' di tutto, ancora piu' del fatto che per salvare se stesso Berlusconi e' pronto a mandare a monte migliaia di processi anche gia' in corso, e' che questo disegno di legge venga giustificato con la volonta' di accorciare i tempi dei processi. Peccato pero' che il testo non preveda in alcuna parte una riforma delle procedure processuali: se il processo non fa in tempo, si straccia e tutti a casa. E' lo stesso procedimento delle ferrovie svizzere, a cui ho assistito qualche anno fa a Briga: un treno che accumula troppo ritardo (1 ora e mezzo nel mio caso) non e' tollerabile. Si fa fermare alla prima stazione e si fanno scendere tutti i passeggeri. Chi si e' visto si e' visto, pazienza se quello era l'ultimo treno della giornata, i passeggeri si arrangeranno. Almeno nessuno potra' dire che in Svizzera i treni non vanno in orario. Una follia assoluta.
Mi rifaccio alle parole dell'Associazione Nazionale Magistrati per ogni ulteriore commento a questa nuova vergogna:

Gli unici processi che potranno essere portati a termine saranno quelli nei confronti dei recidivi e quelli relativi ai fatti indicati in un elenco di eccezioni (articolo 2, comma 5 del disegno di legge) che pone forti dubbi di costituzionalità. È impensabile, infatti, che il processo per una truffa di milioni di euro nei confronti dell’imputato incensurato si estingua, mentre debba proseguire il processo per una truffa da pochi euro, commessa da una persona già condannata, magari anni prima, per altro reato.

Saranno invece destinati a inevitabile prescrizione tutti i processi per reati gravi, quali abuso d’ufficio, corruzione semplice e in atti giudiziari, rivelazione di segreti d’ufficio, truffa semplice o aggravata, frodi comunitarie, frodi fiscali, falsi in bilancio, bancarotta preferenziale, intercettazioni illecite, reati informatici, ricettazione, vendita di prodotti con marchi contraffatti; traffico di rifiuti, vendita di prodotti in violazione del diritto d’autore, sfruttamento della prostituzione, violenza privata, falsificazione di documenti pubblici, calunnia e falsa testimonianza, lesioni personali, omicidio colposo per colpa medica, maltrattamenti in famiglia, incendio, aborto clandestino.

Per tutti questi reati sarà impossibile arrivare a una sentenza di primo grado entro due anni dalla richiesta di rinvio a giudizio, quindi sarà sempre impossibile accertare i fatti. Più che di una amnistia, si tratta di una sostanziale depenalizzazione di fatti di rilevante e oggettiva gravità. Truffatori di professione, evasori fiscali, ricettatori, corrotti e pubblici amministratori infedeli, che non abbiano già riportato una condanna, avranno la certezza dell’impunità.

Infine la norma transitoria, che estende ai processi in corso l’applicazione delle nuove disposizioni, è destinata a determinare l’immediata estinzione di decine di migliaia di processi, anche per fatti gravi. Per limitarci a qualche esempio, la legge provocherà l’immediata estinzione di gran parte dei reati nei processi per i crac Cirio e Parmalat, per le scalate alle banche Antonveneta e Bnl, per corruzione nel processo Eni-Power.

Luca Palamara, presidente dell’Associazione nazionale magistrati

Giuseppe Cascini, segretario generale

Roma, 12 novembre 2009

domenica 18 ottobre 2009

Berlusconizzazione


Ecco, ce l'ha fatta. Anche questo blog e' stato berlusconizzato. Il Sultano, una volta bocciata l'immunita' travestita da lodo Alfano, ha cominciato a dire prima che abolira' la par condicio, poi che cambiera' la Costituzione per eliminare la separazione fra potere giudiziario e esecutivo:

"Io sono per una riforma costituzionale che proprio prenda il toro per le corna e che faccia del nostro paese una democrazia vera non soggetta al potere di un ordine che non ha legittimazione elettorale"

In pratica vuole cancellare il paese dall'elenco delle democrazie, che sulla separazione dei poteri si fondano, come ci insegnavano gia' a scuola, pur di salvare patrimonio e impunita' al capo del governo. E lo fara' affidandosi al "popolo" istruito dalle sue TV, visto che finche' rimane in vigore la Costituzione gli impedisce di farlo direttamente in Parlamento: ma proprio per questo il suo bagno di popolo per purificarsi da ogni colpa fa ancora piu' paura.
E mentre spara queste bordate la reazione del tenutario di questo blog e' ormai diventata l'alzata di spalle di tutti gli italiani: "ma figurati". Poi pero' ci penso un po', e voglio vedere senza par condicio e i cannoni delle tv puntati - senza neppure il lacciuolo formale della par condicio - come va a finire un eventuale referendum tra un paio d'anni...

giovedì 16 luglio 2009

La grotta di Ali' Baba'


Tvemonti annuncia che vuole svuotare la grotta di Ali' Baba' dei paradisi fiscali in conferenza stampa. Lodevole iniziativa: ti aspetti che il governo reintroduca le strategie di Visco per tracciare i flussi di denaro e che ripensi la sua strategia in merito alla lotta all'evasione e al riciclaggio. Invece Tvemonti si riferisce solo all'ennesima inaccettabile sanatoria in discussione alle Camere. E anche stavolta lo scudo fiscale per i capitali illegalmente esportati in discussione e' davvero notevole: vengono perdonati reati come falso in bilancio e bancarotta fraudolenta, e l'obolo richiesto a chi ripulisce il suo denaro è davvero risibile, con aliquota che variano dall'1 al 5%. In pratica un bel premio a trafficanti di armi, droga e organi, grandi evasori e altri delinquenti assortirti. Evidentemente il buon ministro vuole svuotare la caverna di Ali' Baba' per convincerlo a spostare i suoi capitali truffaldini in un paradiso fiscale molto migliore, in cui pochi poveri e fessi pagano i servizi dei ricchi che si godono i loro malloppi esentasse. Dove l'harem lo fornisce il Presidente. E chi se ne importa se il debito pubblico sale, l'occupazione cala: tanto anche il debito sara' solo di chi le tasse le paga!
E infatti mentre nei paesi seri i bancarottieri e i truffatori si beccano 150 anni di carcere e 170mila dollari di risarcimenti da pagare, a casa nostra se rubi un pacco di pannolini al supermercato ti puoi beccare tre anni, ma per allegra gestione contabile o vieni perdonato dallo scudo del giorno o mal che vada ti accorciano la prescrizione per sfuggire i risarcimenti agli ignari risparmiatori. Alla faccia della bilancia della giustizia. E chi lo fa notare e' una testa di cazzo:

venerdì 12 giugno 2009

Bene comune imbavagliato


Il nuovo testo del ddl intercettazioni, frutto del maxi-emendamento presentato ieri dal governo, ha incassato la fiducia alla Camera, la 19/a dall'inizio della legislatura. E la fiducia a voto segreto e' stata incassata con 20 voti in piu' rispetto a quelli della maggioranza, segno che anche dall'altra parte c'e' qualcuno che ha qualcosa da nascondere e che lo antepone al bene comune. Infatti e' facile immaginare quali siano le conseguenze di questa legge bavaglio sulla collettivita': si impedisce alle forze di polizia e alla magistratura inquirente di individuare i responsabili di gravissimi reati, qui qualche esempio recente. Insorgono giornali non compiacenti, la magistratura e l'associazione magistrati, che fanno i conti delle intercettazioni che non si potranno più fare in futuro e di quelle che, in un passato recente, non sarebbero mai state possibili o comunque non si sarebbero mai potute pubblicare, né nella versione integrale, né tanto meno per riassunto. "La scelta proposta è tra la protezione della privacy di pochi e quella della sicurezza di tutti" ha detto Gentiloni nelle dichiarazioni di voto. Il governo parla tanto di sicurezza, e poi non lesina ad anteporre al bene e alla sicurezza di tutti l'impunita' e la salvaguardia di un decoro ormai perduto del suo Sultano. Un attacco doppio, alla liberta' di stampa e alla magistratura inquirente. Vergogna.

domenica 15 marzo 2009

Immunita'



E del Silvio Nazionale parla anche Saramago sul suo blog (!!)

giovedì 19 febbraio 2009

Anestesia totale


Complice l'agonia del PD, per il quale nonostante i precedenti recenti nessuno (tranne la vittima sacrificale Franceschini e il solito Kamikaze Parisi) sembra disposto a lottare perche' venga mantenuto in vita dall'alimentazione forzata, neppure il Vaticano, gli italiani continuano a sonnecchiare inebetiti nella loro anestesia totale. Non bastano le proteste ufficiali del governo Argentino per l'ultima, agghiacciante gaffe di Silvio sui voli della morte e i desaparecidos, smentita prontamente ma documentata indelebilmente in video. Non basta l'ancor piu' grave condanna dell'avvocato David Mills, ex consulente della Fininvest di Berlusconi, giudicato colpevole di esserssi fatto corrompere con 600 mila dollari provenienti dalla Fininvest di Berlusconi per testimoniare il falso in due processi sempre a carico di Berlusconi. O la proprieta' transitiva in Italia non vale, o il Presidente del Consiglio ha corrotto un testimone a suo carico e nemmeno si scusa. Non basta che la posizione nel processo dello stesso Berlusconi sia stata per il momento stracciata solo grazie a una legge speciale fatta appositamente per garantire l'immunita' al capo del governo alla faccia dell'uguaglianza davanti alla legge di tutti i cittadini. L'encefalogramma e' piatto, nessuna reazione, solo le stanche e poco convinte parole del solito Di Pietro che non ascolta piu' nessuno, e una notizia data di volata in coda al telegiornale. Ce ne sarebbe abbastanza per una rivoluzione, e invece gli italiani sono tutti in poltrona a godersi Sanremo e quella specie di Grande Fratello sulla crisi del maggiore partito di opposizione. Neanche piu' nessuno che si incazza, a parte gli immigrati a Lampedusa, forse perche' il gas esilarante non li ha ancora raggiunti. Forse e' proprio il caso di fare una bella legge per il testamento biologico del Paese.