25 Aprile, in ritardo

Con qualche mese di ritardo (ma sempre attualissima, anche in questi tempi in cui la Chiesa commincia ad abbandonare la barca berlusconiana alla deriva), una bellissima omelia di Don Luca Mazzinghi per il 25 Aprile di qualche anno fa a San Romolo a Bivigliano. Purtroppo, su questi temi e sull'intreccio tra Chiesa e politica pare sempre piu' la voce di uno che grida nel deserto...
Grazie a Lorenzo, via Villa Guiccardini.
Oggi, per la Chiesa, festa dell’evangelista Marco. In Italia coincide con una festa civile, la memoria della liberazione dalla dittatura del nazismo e del fascismo. Una Messa, in questo contesto, acquista valore per i credenti prima di tutto come memoria e preghiera per chi è rimasto vittima di questa ondata di violenza, per i caduti che hanno lottato per la libertà, ma si allarga anche come richiesta di perdono per coloro che della guerra sono stati la causa e infine diviene una richiesta al Signore perchè ci doni lui la vera pace e ci conduca alla vera libertà.
E tuttavia dobbiamo rispondere a una domanda: qual è la voce della chiesa in questo contesto? E in secondo luogo: che cosa può dirci oggi Marco, visto che per la chiesa questa festa è al centro della liturgia di oggi? Provo a dire qualcosa con molta semplicità, ma anche con grande convinzione.
Il concilio Vaticano II ci ricorda, nella Gaudium et  Spes, che la chiesa non si propone al mondo come forza politica nè  intende seguire i criteri propri della politica; anzi, qualora fosse  necessario, deve saper anche rinunciare ai privilegi che l’autorità  politica le offre, anche se si trattasse di privilegi legittimi, qualora  questi privilegi diventassero un’occasione di scandalo e di  controtestimonianza evangelica.
C’è da chiedersi, in tutta onestà,  se la chiesa oggi si ricordi ancora di questa parole del concilio; se  davvero lo fa, è evidente che essa non può mai porre come criterio di  comunione e di unità le opzioni temporali o le scelte politiche: ne  consegue, proprio per la natura stessa della fede cristiana, la  necessità del pluralismo politico dei credenti! Lo specifico del  cristiano non sta infatti in una qualche “verità” politica, ma nella  fede in Gesù Cristo. Tale fede ha una valenza politica in quanto si pone  come “critica” di ogni scelta politica che il cristiano cerca di  realizzare insieme agli altri uomini che non credono o che credono in  modo diverso da lui; la fede da un lato spinge il cristiano ad agire  nella cosa pubblica, dall’altro lo rende consapevole della relatività di  ogni scelta politica che deve essere per sua natura tendente al bene  comune anche di chi la fede non ce l’ha.
Così il compito della chiesa  non è quello dare generiche affermazioni di principio in campo  politico, magari difendendo i cosiddetti “valori non negoziabili”. La  Chiesa non è tanto la custode dell’etica, quanto del vangelo e della  fede; talvolta in campo puramente etico deve anche saper tacere. Sono  inve-ce i singoli cristiani, i laici, che spesso dovrebbero parlare, non  la chiesa in quanto gerarchia ecclesiastica. Questo ce lo ricorda con  forza papa Paolo VI nella celebre enciclica Popolurum Progressio di cui  in questi giorni ricorre il quarantesimo anniversario...
“Se  l'ufficio della Gerarchia è quello di insegnare e interpretare in modo  autentico i principi morali da seguire in que-sto campo, spetta ai  laici, attraverso la loro libera iniziativa e senza attendere  passivamente consegne o direttive, di penetrare di spirito cristiano la  mentalità e i costumi, le leggi e le strutture della loro comunità di  vita.”
Se la parola “religiosa” è propria dei profeti – ed è  esattamente questo il compito della chiesa intesa come magistero  ecclesiastico – la parola politica è invece il compito dei giusti e dei  saggi. 
Cosa può dire allora la chiesa oggi in relazione alla libertà, alla pace?
La  Scrittura conosce molto bene il problema della schavitù e della guerra,  fin dalla più antica storia di Israele che, come si legge nel libro  dell’Esodo, era prigioniero nella “casa delle schiavitù” del faraone (Es  20,1) e che continuamente conoscerà guerre nella sua lunga storia –  fino ad oggi, se è per questo. Che risposta offre la Scrittura?
Ed  ecco allora un testo di Marco, la disputa tra i discepoli su chi di loro  è il più grande: “ma tra voi non sia così…”. La chiesa dunque come  “comunità alternativa” al potere politico e capace, in questo campo, di  una vera parola profetica. Il “tra voi non sia così” non va visto  nell’ottica della contrapposizione e dello scontro frontale: di qua la  chiesa, di là il mondo; così da un lato ci si proclama difensori non  richiesti di pretesi valori etici cristiani nel momento stesso in cui  questi valori vengono negati nei fatti, in nome di una pretesa  “reli-gione civile” tanto cara a quelli che io chiamo gli “atei devoti”.  Dall’altro lato c’è ancora chi continua a considerare la chiesa come  sostanzialmente un nemico da combattere, una realtà insignificante da  confinare nelle sacrestie, “la più grande bugia della storia”, come  canta quel Simone Cristicchi tanto caro agli appassionati di Sanremo. Il  concilio Vaticano II ha voluto ricucire quella frattura tra chiesa e  mondo con-temporaneo che si era prodotta fin dai tempi del Sillabo  di Pio IX. Se il nostro mondo ha senza dubbio bisogno della chiesa –  pure se molto spesso non lo sa, anche la chiesa ha bisogno del nostro  mondo.
Il “tra voi non sia così” di Marco non è perciò un rinnovare la logica del non expedit,  ma entrare nella logica evangelica del servizio, del dialogo e della  sottomissione reciproca. La chiesa si propone al mondo come comunità  che, in una società connotata da relazioni fragili, conflittuali e di  tipo consumi-stico, esprime la possibilità di relazioni gratuite, forti e  durature, cementate dalla mutua accettazione e dal perdono reciproco.  Questo è il suo contributo alla pace e alla libertà. Offrire agli uomini  lo spazio concreto per viverla.
Ma c’è qualcosa di più che Marco  ci ricorda. Il vangelo di Marco si gioca su un dramma: più Gesù si fa  conoscere al mondo, più viene rifiutato, iniziando proprio dai suoi  stessi discepoli che non lo comprendono. Solo sotto la croce il  centurione romano, il suo boia, riconoscerà che egli era il Figlio di  Dio. Nessuno sembra averlo compreso prima di quel momento e Marco non fa  nulla per attenuare lo scandalo.
La verità di Gesù, per Marco come  per il resto del NT, si svela pienamente sulla croce; solo qui si  comprende chi è davvero Gesù. La “parola della croce” non è altro poi  che la parola del dono, del servizio, della logica del bene comune, del  “tra voi non sia così”. La parola della croce è la parola che accetta la  debolezza, la sconfitta, che non demonizza neppure l’avversario che ti  sta crocifiggendo; la parola che rinunzia alla presunzione e  all’arroganza. E’ il riconoscimento del fatto che senza un vero dono di  se stessi non si potrà mai parlare di pace. E del resto fin dalla Città  di Dio di s. Agostino la pace è sempre stata intesa dalla chiesa come la  tranquillità dell’ordine, la concordia e l’armonia tra gli uomini.
Questo  è un altro contributo della chiesa: annunziare agli uomini di buona  volontà che c’è qualcuno che ha già aperto per tutti questa via della  pace e che quel qualcuno si chiama Gesù, “la nostra pace”, come lo  chiama Paolo nella lettera agli Efesini. Il cristiano offre così al  mondo non una serie di valori etici più o meno sublimi bensì quello che  Maritain chiamava “un supplemento d’anima”: la fede in Gesù Cristo.  Ancora Paolo VI... “La pace non si riduce a un'assenza di guerra, frutto  dell'equilibrio sempre precario delle forze. Essa si costruisce giorno  per giorno, nel perseguimento di un ordine voluto da Dio, che comporta  una giustizia più perfetta tra gli uomini.”
Bivigliano - 25 aprile 2007
 

 
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1 commento:
A proposito, interessante anche Mons. Bettazzi qui: http://observator-dwf.blogspot.com/2010/08/dagli-amici.html
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