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martedì 27 gennaio 2009

Memoria e scoraggiamento


Tutto quello che c'era da dire sul Giorno della Memoria di quest'anno, passando dalla sinistra al Vaticano, lo dice Gennaro Carotenuto su Giornalismo Partecipativo:


Stanotte mi hanno chiamato le parole di Giacomo Ulivi citato da un saggio di Claudio Pavone che mi ha accompagnato fino a tarda ora. Giacomo è uno studente in legge di 19 anni, partigiano, arrestato, torturato, fuggito, riarrestato, ritorturato, infine fucilato dai fascisti a Modena:

Quanti di noi sperano nella fine di questi casi tremendi per iniziare una laboriosa e quieta vita dedicata alla famiglia e al lavoro? Benissimo […] Ma nel desiderio invincibile di quiete è il tentativo di allontanarsi il più possibile da ogni manifestazione politica. E’ il tremendo, il più terribile risultato di un’opera di diseducazione ventennale che è riuscita ad inchiodare in molti di noi dei pregiudizi. Fondamentale quello della “sporcizia” della politica. Tutti i giorni ci hanno detto che la politica è lavoro di “specialisti” […]. No, non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere. Pensate che tutto è successo perché non ne avete più voluto sapere!

Proprio stanotte le parole di Giacomo, ragazzo partigiano, mi son sembrate tirare le fila tra molte preoccupazioni per l’Italia di questi giorni e di questi anni. Quella citazione per l’opera di diseducazione ventennale che stiamo di nuovo vivendo, quell’accusa (ma anche l’incoraggiamento) a noi tutti di non averne voluto più sapere, me le hanno fatte sembrare adatte per il giorno della Memoria.
Il disastro della sinistra con le mani e la mente legate dai professionisti della politica. Il paese e non solo il parlamento ridotto ad un bivacco dei manipoli del padrone della scatola magica. L’attacco oramai sistematico ai diritti civili che viene dall’Oltretevere ratzingeriano, che è giunto con il Cardinal Poletto alla tracotanza perfino di superare il Concordato e sostenere che le loro leggi vengono prima di quelle dello Stato.
Un assedio che oggi prende la faccia impudica del lefebvriano Richard Williamson, antisemita, negazionista ma soprattutto anticonciliare. Se vi è una battaglia che i cattolici democratici dovrebbero combattere è quella per difendere il Concilio Vaticano II dalla valanga reazionaria. Se vi è una battaglia che tutti i democratici di questo paese dobbiamo combattere è quella di Giacomo, studente, partigiano, fucilato dai fascisti: Tutto questo sta di nuovo succedendo perché non ne vogliamo più sapere.

martedì 12 agosto 2008

S. Anna, 12 Agosto 1944


Mentre il mondo lontano e prossimo rinnova troppo spesso le scene di devastazione, di carneficine e di scempi, Sant’Anna, con l’umile autorità che le viene dal suo martirio chiama tutti gli uomini ad una definitiva conversione alla pace, alla dignità del colloquio, alla ricerca costante di una possibile armonia. Il cuore degli uomini sia pari alla enormità del luttuoso retaggio e alla grandezza della speranza.
Mario Luzi
Appello di Pace, 18 giugno 1994

Il 12 Agosto del 1944 il 16° battaglione SS, con a capo il maggiore Walter Reder, sali' guidato da collaborazionisti fascisti al paese di Sant'Anna di Stazzema, nell'interno ddella Versilia. In poco più di tre ore massacrarono 560 innocenti. Uccisero i nonni, le madri, uccisero i figli e i nipoti. Uccisero i paesani ed uccisero gli sfollati, i tanti saliti lassu' in cerca di un rifugio dalla guerra. Uccisero Anna, l’ultima nata nel paese di appena 20 giorni, uccisero Evelina, che quel mattino aveva le doglie del parto e a cui i tedeschi aprirono il ventre con le baionette per poi lanciare il feto per aria sparandogli alla testa, uccisero Genny, la giovane madre che, prima di morire, per difendere il suo piccolo Mario, scagliò il suo zoccolo in faccia al nazista che stava per spararle, uccisero il prete Innocenzo, che implorava i soldati nazisti perché risparmiassero la sua gente, uccisero gli otto fratellini Tucci, con la loro mamma. 560 ne uccisero, senza pietà in preda ad una cieca furia omicida. Indifesi, senza responsabilità, senza colpe. E poi il fuoco, a distruggere i corpi, le case, le stalle, gli animali, le masserizie. A Sant’Anna, quel giorno, uccisero l’uomo.
La verita' sulla strage e' emersa, oltre che dal racconto dei pochi sopravvissuti e di uno dei soldati, dalle indagini della Procura Militare di La Spezia e al ritrovamento negli scantinati di Palazzo Cesi a Roma di un armadio chiuso e girato con le ante verso il muro, ribattezzato poi “Armadio della vergogna”, poiché nascondeva da oltre 40 anni documenti che sarebbero risultati fondamentali ai fini di una ricerca della verità storica e giudiziaria sulle stragi nazifasciste in Italia nel secondo dopoguerra. Non fu ne' vendetta ne' rappresaglia, ma un atto terroristico, premeditato e curato in ogni minimo dettaglio con l'obiettivo di rompere ogni collegamento fra le popolazioni civili e le formazioni partigiane presenti nella zona. La strage continuo' nei giorni seguenti, quando oltre 340 persone mitragliate, impiccate, bruciate con il lanciafiamme nelle valli vicine.
Così lo scrittore Manlio Cancogni narra gli avvenimenti di quella terribile giornata:

I tedeschi, a Sant’Anna, condussero più di 140 esseri umani, strappati a viva forza dalle case, sulla piazza della chiesa. Li avevano presi quasi dai loro letti; erano mezzi vestiti, avevano le membra ancora intorpidite dal sonno; tutti pensavano che sarebbero stati allontanati da quei luoghi verso altri e guardavano i loro carnefici con meraviglia ma senza timore nè odio. Li ammassarono prima contro la facciata della chiesa, poi li spinsero nel mezzo della piazza, una piazza non più lunga di venti metri e larga altrettanto una piazza di tenera erba, tra giovani piante di platani, chiusa tra due brevi muriccioli; e quando puntarono le canne dei mitragliatori contro quei corpi li avevano tanto vicini che potevano leggere negli occhi esterrefatti delle vittime che cadevano sotto i colpi senza avere tempo nemmeno di gridare. Breve è la giustizia dei mitragliatori; le mani dei carnefici avevano troppo presto finito e già fremevano d’impazienza. Così ammassarono sul mucchio dei corpi ancora tiepidi e forse ancora viventi, le panche della chiesa devastata, i materassi presi dalle case, e appiccarono loro fuoco. E assistendo insoddisfatti alla consumazione dei corpi spingevano nel braciere altri uomini e donne che esanimi dal terrore erano condotti sul luogo, e che non offrivano alcuna resistenza. Intanto le case sparse sulle alture, le povere case di montagna, costruite pietra su pietra, senza intonaco, senza armature, povere come la vita degli uomini che ci vivevano erano bloccate. Gli abitanti erano spinti negli anditi, nelle stanze a pianterreno e ivi mitragliati e, prima che tutti fossero spirati, era dato fuoco alla casa; e le mura, i mobili, i cadaveri, i corpi vivi, le bestie nelle stalle, bruciavano in un’unica fiamma. Poi c’erano quelli che cercavano di fuggire correndo fra i campi, e quelli colpivano a volo con le raffiche delle mitragliatrici, abbattendoli quando con grido d’angoscia di suprema speranza erano già sul limitare del bosco che li avrebbe salvati. Poi c’erano i bambini, i teneri corpi dei bimbi a eccitare quella libidine pazza di distruzione. Fracassavano loro il capo con il calcio della «pistol-machine », e infilato loro nel ventre un bastone, li appiccicavano ai muri delle case. Sette ne presero e li misero nel forno preparato quella mattina per il pane e ivi li lasciarono cuocere a fuoco lento. E non avevano ancora finito. Scesero perciò il sentiero della valle ancora smaniosi di colpire, di distruggere, compiendo nuovi delitti fino a sera. A mezzogiorno tutte le case del paese erano incendiate; i suoi abitanti fissi e gli sfollati erano stati tutti trucidati. Le vittime superano di gran lunga i cinquecento, ma il numero esatto non si potrà mai sapere. "Alcuni scampati all’eccidio erano corsi in basso a portare la notizia agli abitanti della pianura raccolti in gran numero nella conca di Valdicastello. La notizia la portavano sui loro volti esterrefatti, nelle parole monche che erano appena capaci di pronunciare e dalle quali chi li incontrava capiva che qualcosa di terribile era accaduto pur senza immaginare le proporzioni. Della verità cominciarono invece a sospettare nelle prime ore del pomeriggio quando le prime squadre di assassini scendendo dalle alture di Sant’Anna, si annunciarono sull’imbocco della vallata a monte del paese. Li sentivano venir giù precipitosi,accompagnati dal suono di organetti e di canzoni esaltate, e quel ch’è peggio dal rumore di nuovi spari, da nuove grida, che non convinti di aver ben speso quella giornata, i tedeschi la completavano uccidendo quanti incontravano sul sentiero della montagna. Alcuni che al loro passaggio s’erano nascosti nelle antrosità della roccia vi furono bruciati dentro dal getto del lanciafiamme. Una donna che correva disperata portando in salvo la sua creatura, raggiunta che fu, le strapparono dalle braccia il prezioso fardello, lo scagliarono nella scarpata e lei stessa l’uccisero a colpi di rivoltella nel cranio. Molti altri furono raggiunti dalle raffiche di mitragliatori mentre fuggivano saltando per le balze della montagna, come capre selvatiche contro le quali si esercitava la bravura del cacciatore. Quando i tedeschi raggiunsero Valdicastello cominciando a rastrellare gli abitanti, il paese era già stretto dall’angoscia; gli abitanti serrati nelle case e nascosti alla meglio; la strada deserta; tutti oppressi da un incubo di morte. Il passaggio dei tedeschi dal paese si chiuse con la discesa del buio sulla valle, dopodichè ottocento uomini erano stati strappati dalle case e condotti via, e un’ultima raffica di mitragliatrice accompagnata da un suono più sguaiato e atroce di organetto, aveva tolto la vita ad altri quattordici infelici, scelti a caso.

domenica 27 gennaio 2008

L'ebreo che ride


Via 1911dc, una storiella ebraica da L'ebreo che ride, (umorismo ebraico in otto lezioni e duecento storielle) di Monia Ovadia. Per ricordarsi non solo la distruzione ma anche cosa hanno tentato di distruggere.

Haim Mandelstam, importante mediatore di affari, aveva sentito celebrare il sarto di Kovno, Shmul Pincherle, ed aveva deciso di ordinare proprio a lui il suo nuovo abito da cerimonia anche se Kovno non era decisamente dietro l'angolo per lui che stava a Minsk. Tutte le persone che più contano gli avevano detto che un abito di quel sarto era un'esperienza unica. Shmul Pincherle, il sarto, era un uomo ossuto che da bel pezzo aveva oltrepassato la settantina. La sua barba caprina si divideva in due corni, il labbro inferiore era notevolmente sporgente e gli occhi socchiusi permanentemente atteggiati nello sforzo di perfezionara la messa a fuoco. Verosimilmente, quelle caratteristiche di labbro, barba ed occhi, non erano caratteristiche somatiche, ma piuttosto il risultato di una postura o, se si vuole, di una smorfia derivata dallo spasimo di concentrazione che richiede l'infilare il filo nella cruna dell'ago, cosa che all'ultrasettantenne sarto Shmul Pincherle faceva ancora con mira infallibile e senza ingoiare gli spilli per l'imbastitura. Qualche che ne fosse la ragione, sta di fatto che ogni suo gesto veniva compiuto attraverso quella curiosa smorfia. E così, da sopra le spesse lenti dei pence-nez che portava conficcati in mezzo al naso, con quella stessa immutabile espressione aveva attentamente scrutato il suo nuovo cliente, il mediatore di affari Haim Mandelstam. Quello era anche il suo modo di prendere le misure. Le misure canoniche le prendeva solo per compiacere i clienti. Shmul Pincherle aveva pregato il signor Mandelstam di fermarsi a Kovno per le prove di rito, poi lo aveva congedato: "Torni tra un mese, per prendere suo vestito". Puntualmene Haim Mandelstam era tornato dopo un mese, ma si era sentito dire dal vecchio sarto: "Ce l'ho vauto dei problemi, torni tra un'altro mese". E così, di mese in mese, Shmul Pincherle aveva rimandato il povero mediatore di affari per sei volte. Ma il settimo mese il vestito era finalmente pronto ed era sfolgorante: "Senta Shmul", commentà il mediatore di affari Mandelstam osservando compiaciuto il suo nuovo abito, "Il vestito è veramente eccezionale, ma se lo rende conto che lei c'ha impiegato sette mesi per finirlo, mentre il buon Dio, per fare tutto il mondo, ce l'ha messo sette giorni ?!?" Scrutando l'abito con la sua smorfia abituale per non lasciarsi scappare la benchè minima imperfezione, il sarto Shmul Pincherle sospirò e dopo una studiata pausa osservò: "Qvelo che le dice è vero, caro signor Mandelstam! Ma gvardi il mio vestito che bellezza e....la prego gvardi questo mondo che disastro!"