venerdì 24 aprile 2009

Comprendere l'unione



Vent'anni. Seduto fra chi cita Roth e chi racconta esilaranti aneddoti di auto distrutte e "coabitanti" (indimenticabile il "che faccio, busso?"), ho guardato per tutta la sera volti e gesti davvero sorprendentemente simili a quelli con cui ho fatto un pezzo breve ma lunghissimo di strada, tra quei banchini presto diventati troppo piccoli della scuola Lavagnini. Tra l'accavallarsi di ricordi e la sorpresa per le strade diverse ma in qualche modo parallele intraprese da ognuno, lo stupore di scoprire come particolari dimenticati della propria infanzia avessero invece colpito qualcuno degli altri tanto da essere ancora capace a distanza di vent'anni di ricordare un gesto, una storia, un disegno.
Era da tempo che non mi divertivo cosi', che non mi sentivo unito in un modo cosi' speciale con cosi' tante persone intorno a un tavolo, anche se a rigore dovrebbero essere stati tutti praticamente degli estranei. Estranei che rivedrei presto volentieri. Indimenticabile la telefonata alla maestra, grazie al coraggio di Irene e alla tecnologia di Marco, e la prima occhiata alla faccia di ognuno dei vecchi compagni per scoprirla ancora cosi' simile a quella a cui ero abituato.
Mi scusera' Elena, ma la sua citazione di Roth e' cosi' a proposito che non posso fare a meno di riprenderla:

(…) Questo è il discorso che non tenni alla quarantacinquesima riunione degli ex allievi della scuola, un discorso rivolto a me stesso mascherato da discorso rivolto a loro. Cominciai a comporlo solo dopo la riunione, al buio, a letto, mentre cercavo di capire cosa mi avesse preso. Il tono - troppo meditabondo per la sala da ballo di un country club e per il genere di svago che la gente si sarebbe aspettata - non sembrava affatto sbagliato fra le tre e le sei del mattino, mentre mi sforzavo, nella mia sovreccitazione, di comprendere l’unione che c’era sotto la riunione, l’esperienza comune che ci aveva unito da ragazzi. Nonostante le diverse gradazioni in materia di stenti e privilegi, nonostante lo spreco di ansietà generato da una miscellanea straordinariamente sfumata di liti familiari (liti che, per fortuna, promettevano più infelicità di quanta ne producevano effettivamente), qualcosa di forte ci univa. E ci univa non soltanto per l’identità del luogo da dove venivamo, ma anche per quella del luogo dove volevamo andare, e per come ci saremmo arrivati. Avevamo nuovi mezzi e nuovi fini, nuove devozioni e nuove mire, nuovi visceri: una disinvoltura nuova, una minore agitazione di fronte alle esclusioni che volevano mantenere i gentili. E da quale contesto uscivano queste trasformazioni, da quale dramma storico, fiduciosamente recitato dai suoi piccoli protagonisti in aule scolastiche e cucine che non somigliavano affatto al grande teatro della vita? Tra quali elementi avveniva la collisione che produceva in noi la scintilla?

Philip Roth, Pastorale americana, Einaudi, p. 48



1 commento:

Anonimo ha detto...

... saccheggia, saccheggia pure.
E.