Rieducazione
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Costituzione Italiana, Art. 27
La realta' pero' e' ben diversa. Cosi' Francesco Costa per l'Unita':
«Che non accada mai più! Che serva da lezione!». È un copione amaro e comune quello per cui a seguito di un fatto molto grave si alzi il più scontato e disperato degli auspici. Per quanto il gesto possa dare una qualche temporanea e illusoria sensazione di speranza, dovremmo ormai aver capito che desiderarlo non basta e che forse giova di più raccontare per filo e per segno quel che succede, osservare e analizzare senza sosta le relazioni tra i fatti, coltivare l’abitudine di ricordare quel che è accaduto e si vuole non accada più.
Quando si parla di quel succede nelle carceri italiane, infatti, un ottimo punto di partenza può essere la presa d’atto che il cosiddetto “caso Cucchi” è stato tutto meno che un caso. Nelle carceri italiane muoiono in media 150 detenuti l’anno: un terzo per suicidio, un terzo per “cause naturali” e la restante parte per “cause da accertare”. I morti per suicidio sono una cifra impressionante: con 1005 casi accertati dal 1990 a oggi, in carcere ci si suicida ventuno volte di più che fuori. Si tratta inoltre di un dato che aumenta in modo esponenziale con l’aumentare del sovraffolamento: nell’ultimo anno, a un incremento del venti per cento della popolazione carceraria è corrisposto un incremento dei suicidi vicino al 50 per cento. Il numero delle morti per “cause da accertare”, poi, nasconde spesso realtà drammatiche e inquietanti sulle quali fare luce è praticamente impossibile, anche a fronte di perizie e documentazioni inequivocabili, specie senza le attenzioni dei mezzi di comunicazione e la presenza di famiglie determinate come quella di Stefano Cucchi.
Il centro studi Ristretti orizzonti, che da anni si occupa della questione carceraria con precisione e competenza, presenta un quadro da dittatura sudamericana. «Morti per “infarto” con la testa spaccata, per “suicidio” con con ematomi e contusioni in varie parti del corpo. Quello che non è possibile vedere, ma a volte emerge dalle perizie mediche (quando vengono disposte e poi è dato conoscerne l’esito), sono costole spezzate, milze e fegati “spappolati”, lesioni ed emorragie interne. Questo è quanto emerge dalle cronache, dalle perizie, dalle fotografie (quando ci arrivano) e questo è quanto ci limitiamo a testimoniare». Un rapporto mette insieme trenta casi di morti dalle dubbie circostanze avvenuti dal 2002 a oggi.
Si va da Stefano Guidotti, 32 anni, trovato impiccato alle sbarre del bagno ma col volto ricoperto escoriazioni e una serie di macchie di sangue sul pavimento, a Kolica Andon, 30 anni, albanese, che si uccide dopo 35 giorni di sciopero della fame. «Preferisco morire», aveva detto, «piuttosto che restare qui dentro da innocente». Da Mauro Fedele, detenuto nel carcere di Cuneo, al quale viene diagnosticata la morte per “arresto cardiocircolatorio” mentre suo padre denuncia un «corpo di pieno di lividi, con la testa fasciata e segni blu su collo, sul petto, sui fianchi e all’interno delle cosce, sia a destra sia a sinistra», a Marco De Simone, con problemi psichici, che viene dichiarato “incompatibile con il regime carcerario” ma viene ugualmente detenuto e si impicca 48 ore dopo essere arrivato a Rebibbia.
Poi c’è Marcello Lonzi, ufficialmente morto “per collasso cardiaco”, le cui foto raccontano di un corpo inequivocabilmente martoriato di lividi. Stessa sorte di Habteab Eyasu, 36 anni, eritreo, che si uccide impiccandosi in una cella di isolamento della Casa Circondariale di Civitavecchia. Le foto mostrano una ferita in fronte e una grande macchia di sangue dietro la nuca. C’è il caso di Aldo Bianzino, uno dei pochi che è riuscito ad avere una qualche attenzione dai mezzi di comunicazione. Bianzino viene arrestato il venerdì 13 ottobre 2007 e muore domenica 15. Quando trovano il suo corpo, i medici riscontrano quattro emorragie cerebrali, almeno due costole rotte e lesioni a fegato e milza. C’è Manuel Eliantonio, 22 anni, che scriveva: «Cara mamma, qui mi ammazzano di botte almeno una volta la settimana e mi riempiono di psicofarmaci…». Lo trovano morto in un bagno del carcere di Marassi, a Genova, con il volto coperto di ecchimosi.
In alcuni di questi casi il dramma ha persino dei risvolti paradossali, come nel caso di Gianluca Frani, 31 anni, che si sarebbe suicidato impiccandosi a un tubo dello scarico del water, nel carcere di Bari. C’è un dettaglio, però: Frani era paraplegico e semiparalizzato. Oppure il caso di Sotaj Satoj, 40 anni, albanese, che muore nel reparto Rianimazione dell’Ospedale di Lecce dopo tre mesi di sciopero della fame. Dopo la sua morte, gli agenti continuarono a piantonarlo per ore: credevano stesse fingendo, per tentare la fuga. Anche Andrea Mazzariello, 50 anni, paraplegico e costretto su una sedia rotelle, si toglie la vita impiccandosi a un tubo del water col cordone dell’accappatoio. Il suo medico di base gli aveva prescritto delle dosi di morfina, per combattere il dolore lancinante alla schiena che lo costringeva sulla carrozzella. Morfina che gli veniva inspiegabilmente negata: secondo il suo medico «per questo si è tolto la vita». E poi decine di altri casi di morti misteriose, di ragazzi in piena salute morti a causa di generici «malori», di suicidi inspiegabili e comportamenti irresponsabili da parte delle autorità. Storie orribilmente frequenti in quegli inferni in terra che sono le carceri italiane: da ricordare, raccontare e denunciare senza pause perché davvero, una volta per tutte, non accadano più.
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