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venerdì 26 febbraio 2010

O tempora, o mores!


L’editorialista del “Corriere della Sera” aveva appena finito di scrivere che il problema della corruzione in Italia non è politico, perché tutta l’Italia è corrotta, anzi “la corruzione italiana appare invincibile; rinasce di continuo perché in realtà non muore mai, dal momento che a tenerla viva ci pensa l’enorme serbatoio del Paese”, che subito il Procuratore generale della Corte dei Conti è sembrato dargli ragione. Ha detto infatti nella sua relazione annuale che le denunzie per corruzione sono salite del 229 per cento nel 2009, e del 153 per cento quelle di concussione, che aumentano le citazioni in giudizio per danno erariale, che si sprecano risorse pubbliche e si lasciano in asso opere già iniziate, che dilaga l’arbitrarietà e “opacità” degli appalti, si moltiplicano spese inutili per la sanità e si lamentano “dazioni illegittime corrisposte per la determinazione e revisione del prezzo delle medicine”, e via delinquendo.

Tuttavia il quadro dell’Italia che risulta dalla severa denuncia del Procuratore non convalida l’analisi del giornale lombardo, secondo cui se tutti sono corrotti non ci si può fare nulla, perché in Italia ci sarebbe poca legalità, molto anarchismo e troppe famiglie; e le ultime inchieste che hanno distrutto il mito benefico della Protezione civile nonché le intercettazioni prima, durante e dopo il terremoto, non consentono di dire che la causa della corruzione non è la politica, e che i politici non sono peggio degli altri, uguali come sono tra destra e sinistra.
Non è così, perché i reati indicati dalla Corte dei Conti sono tutti occorsi nella sfera pubblica, e se non ci fosse stato il concorso per azione o omissione della politica, non sarebbero stati possibili; e se corruzione e concussione sono aumentate in modo esponenziale da un anno all’altro, vuol dire che in quell’anno è successo qualcosa nelle regole, nelle pratiche e nel codice etico del governo; e il governo non è “la politica” ma è, nell’Italia di oggi e nel sistema che ci siamo dato, una gestione politica seccamente di parte, e più propriamente della destra al potere.
Ora la questione non è affatto che ci sia più moralità a sinistra e più lassismo a destra. Questo statisticamente può anche essere vero, ma se funzionasse un sistema di norme, di limiti, di controlli e di garanzie, ciò arginerebbe la corruzione e terrebbe alto il livello della moralità pubblica, indipendentemente dal colore politico dei ladri e dei corrotti, che pur singolarmente continuassero ad esserci.
Al contrario l’attuale governo persegue precisamente il programma di smantellare il sistema delle regole. Con l’approvazione alla Camera della legittima latitanza per il presidente del Consiglio e i suoi ministri, con i processi che in futuro scadranno come i medicinali, col voler coprire di vergogna ogni inchiesta penale riguardante i propri amici, quello che Berlusconi e Alfano stanno cercando di fare, ben al di là della tutela personale del premier, è la trasformazione della giustizia e della magistratura in un’opera del regime. In questo senso la Tangentopoli del terzo millennio, come la chiama Ignazio De Magistris, non è come quella degli anni 90; quella segnava un inizio, questa potrebbe segnare una fine; perché come la prima Tangentopoli fu possibile perché la rottura della compattezza del regime democristiano liberò la magistratura e permise che essa tornasse semplicemente a fare il suo dovere, esercitando il controllo di legittimità, così l’attuale Tangentopoli potrebbe essere l’estrema prova di vitalità prima che ogni inchiesta sia impedita da un nuovo vincolo di regime. Ma nello stesso tempo è una prova di resistenza, a dimostrazione del fatto che nonostante tutto la Costituzione resiste, resistono i magistrati e resiste la Corte Costituzionale.
Che il pericolo sia grande è dimostrato dal fatto che scoperchiando il vaso di Pandora della Protezione civile, in cui si è trovato di tutto, dai terremoti alla festa del santo patrono, si è anche messa in luce la vera natura politica dell’azione di governo in corso. Essa consiste nello sprofondare la democrazia in un perenne stato d’eccezione, che di per sé reclama la decisione di un potere sovrano; di qui il precipitare della “governabilità” verso una sistematica decretazione d’urgenza, un esercizio del potere in deroga a vincoli e controlli, la proliferazione di autorità “extra ordinem” che operano discrezionalmente e operano per mezzo di ordinanze, sottratte alle regole vigenti per tutte le altre fonti normative. Come hanno detto i Comitati Dossetti per la Costituzione, che ora rilanciano la loro azione, “al di là della debolezza degli uomini un sistema così arbitrario costituisce un naturale terreno di coltura di corruzione e di prostituzioni Statali, oltre a far cadere le difese contro l’invadenza della criminalità organizzata”.
La conclusione è che la corruzione si può combattere, se si corregge e riforma il sistema politico, e si riprende la grande strada del costituzionalismo, che vuol dire regole, diritti e libertà.

Raniero La Valle

Intanto per la Cassazione l’avvocato David Mills è si' colpevole di essersi fatto corrompere con 600 mila dollari per favorire l’imputato Berlusconi in due processi (tangenti alla Guardia di Finanza; fondi neri Fininvest – All Iberian), ma non può più essere punito, perché ha incassato la tangente più di dieci anni fa, e quindi la condanna va in prescrizione. Della condanna di primo grado, confermata anche in appello, resta valido quindi il risarcimento civilistico del danno morale (che non cade in prescrizione): Mills dovrà versare 250 mila euro (contro i 600 mila dollari che si e' reso) allo Stato italiano, che per legge, paradossalmente, è rappresentato nel processo dalla presidenza del consiglio dei ministri. Che intanto grida al complotto e parla di assoluzione... come subito fanno anche i cinegiornali.

domenica 2 novembre 2008

Se vince Obama


Riporto l'articolo di Raniero La Valle scritto per la rubrica «Resistenza e pace» del n.18 del quindicinale di Assisi, Rocca

Se vince Obama, si accende una stella. Infatti vuol dire che le cose possono cambiare e che a vincere non è sempre l'uomo bianco, neanche in America. Se Obama vince, non è perché ha dalla sua il passato, come McCain ha quello di "eroe" per aver combattuto nella guerra persa del Vietnam; non è perché l'uragano che le sette cristiane avevano invocato contro di lui si è abbattuto invece sulla convenzione repubblicana (ma Dio non era nel vento); non è perché a un certo punto per avere i voti della classe media e della comunità ebraica americana ha dato una sterzata a destra alla sua campagna elettorale e a Gerusalemme ha promesso a Israele ciò che non poteva promettere; se Obama vince è perché una fase si è chiusa e la nuova fase non si può affrontare con le idee e con le armi di prima. La crisi del Caucaso, più ancora che le sconfitte in Iraq e in Afghanistan, ha mostrato l'esaurimento della orgogliosa pretesa della neo-destra americana di fare suo il mondo dopo la rimozione del muro di Berlino. In effetti qui le condizioni erano le più favorevoli per gli Stati Uniti: la Georgia, uscita dall'URSS e ormai entrata nella sfera americana, e anzi ansiosa di entrare nella NATO; l'egemonia atlantica ormai imperante in tutta l'area est-europea di antica obbedienza sovietica; la Polonia pronta ad accogliere lo scudo spaziale e ogni altra arma "difensiva" antirussa; la Russia ormai ufficialmente declassata, dagli analisti americani, a potenza "regionale". E se gli Stati Uniti avevano fatto una guerra per il Kosovo, ben poteva la Georgia fare una guerra per l'Ossezia. Ma è bastato che la Russia dicesse di no, che rivendicasse il mandato dell'ONU come legittimazione della sua presenza militare nell'Ossezia del Sud, e che muovesse le sue forze armate, ed ecco che tutto l'Occidente, in preda alla massima confusione, non ha potuto accusare la Russia che di «una reazione sproporzionata», ancorché legittima; e la Georgia ha perso, e l'America con lei. La lezione è che la forza non basta più, che nuovi equilibri si vanno creando, e che nessuno può fare quello che vuole. L'era di Bush finisce con la sua «strategia della sicurezza nazionale americana», la quale consisteva nel fatto che gli Stati Uniti controllassero il mondo intero, e che mai alcun'altra potenza potesse non solo superare, ma neanche eguagliare la potenza americana; l'equazione era che la sicurezza degli Stati Uniti stava nella insicurezza degli altri, e nell'impedire che qualsiasi nuova forma di equilibrio potesse crearsi dopo quello tramontato dei due blocchi. Questo sogno, concepito dopo la scudisciata delle Torri Gemelle, è svanito. Ma ciò si accompagna alla caduta di un altro sogno coltivato a partire dall'89 dalle potenze vincitrici della guerra fredda: e cioè che la globalizzazione, come realizzazione del capitalismo puro, sarebbe stata la forma definitiva del mondo, ormai pacificato sotto la dittatura universale del danaro. I costi umani, politici, economici e sociali di questo assetto finale della storia erano considerati danni collaterali, e in sé trascurabili, purché non arrivassero alle prime pagine. Anche questa costruzione è franata; ma non perché ci sia stata una rivincita degli sconfitti, ma perché questo sistema non è atto a reggere la terra, e la terra esplode sotto le sue mani. Non è solo "il dio mercato" che produce danni irreparabili, come ormai ammette anche Tremonti, improbabile neofita della lotta contro un "fanatico" liberismo economico; ma è tutto il sistema della appropriazione, della produzione, del consumo e della trasformazione che è giunto a sbattere contro un muro invalicabile, che è quello dei limiti di un mondo finito e di una creatura che crea ma nei gemiti di una realtà essa stessa creata. Per rendersi conto della gravità della crisi sistemica che si è prodotta e della portata dei "mali del mondo" basta leggere un agile libro appena uscito di una ambientalista di fama, Carla Ravaioli, dal titolo «Ambiente pace, una sola rivoluzione» (edizioni Punto Rosso, 12 euro). Si può discutere la proposta di cominciare un rientro nei limiti, col disarmo dell'intera Unione europea, ma tutta l'analisi è ineccepibile e altrettanto la tesi dell'urgenza di una drastica inversione di tendenza; altrimenti il sistema per la sua stessa logica sarebbe tentato di salvarsi giocando l'ultima carta delle disuguaglianze, dell'esclusione e della guerra. Questa riforma non può farsi per via politica senza una profonda revisione delle culture che hanno presidiato fin qui lo sviluppo del mondo. Se vince Obama un mutamento politico e culturale potrebbe cominciare in America; e allora toccherebbe a noi, forze umane e progressiste di ogni Paese, fare da sponda a questa possibile rivoluzione americana. Perché se cambia la politica dell'America, cambia il mondo.

giovedì 18 settembre 2008

La politica come fascismo


Riporto l'articolo di Raniero La Valle della rubrica "Resistenza e pace" in uscita sul prossimo numero del quindicinale di Assisi, Rocca.

Era uno scandalo che il ministro della difesa, celebrando la resistenza romana dinnanzi al presidente della Repubblica, avesse ripreso il tema dell'equivalenza tra antifascisti e repubblichini di Salò, i quali avrebbero combattuto anch'essi credendo di difendere la patria. Uno scandalo perché se il ministro della difesa non sa distinguere tra vera e falsa difesa della patria, quale patria oggi sarebbe pronto a difendere? Altrettanto inquietante era stata la rivalutazione del fascismo, a parte gli ebrei, fatta dal sindaco di Roma. Se per giudicare un regime nefasto si distingue tra male assoluto e relativo, riservando la condanna al solo male assoluto, allora nessun regime potrebbe essere condannato, perché il male assoluto, grazie a Dio, non esiste, quando perfino ad Auschwitz, come ci ha mostrato Roberto Benigni, si può dire che "la vita è bella", se può fiorirvi l'amore anche di uno solo. Dopo il fermo rimprovero del Presidente Napolitano, in difesa della Costituzione, Gianfranco Fini è corso ai ripari, rivendicando i valori dell'antifascismo, che dovrebbero essere fatti propri anche dalla destra; anzi è proprio perché non c'è stata una destra in grado di riconoscersi nei valori antifascisti, secondo Fini, che "libertà, uguaglianza e giustizia sociale", che sono i fondamentali postulati costituzionali, hanno avuto vita difficile in Italia. Tutto bene allora? Certamente è bene che a rivendicare le radici antifasciste della Repubblica, sia proprio il leader di quella destra che del fascismo si era presentata come erede. Ma al di là della disputa storica sulla periodizzazione del fascismo, e dell'opportunismo politico che può aver ispirato la presa di posizione di Fini, resta il fatto che la questione del fascismo è ancora aperta in Italia, ed è proprio la destra a rendere legittima una interpretazione della politica italiana in termini di fascismo o antifascismo. È una constatazione importante, perché finora tutti i tentativi di denunciare come fascismo le linee maestre dell'azione politica di Berlusconi, o il razzismo della Lega, e l'allarme sul pericolo fascista insito nelle riforme delle leggi elettorali e della stessa Costituzione, sono stati bollati come ideologici e insostenibili, con l'argomento che la storia non si ripete e in nessun caso in Italia potrebbe riprodursi una sciagura come quella fascista. Invece potrebbe ripetersi, ed è proprio la destra di governo a risuscitarne il fantasma. Certo il fascismo non tornerebbe con le camicie nere e l'olio di ricino (oggi si usano le spranghe), ma al di là delle forme, c'è un contenuto profondo del fascismo, un classismo ontologico, un'antropologia della disuguaglianza, una concezione esclusivista del potere, un primato della forza e, non ultimo, un culto del denaro, che fanno del fascismo un archetipo politico che sottende e può esplodere in qualsiasi società. L'antidoto è la cultura, l'informazione, l'educazione a uno spirito non gregario, la dignità della critica, la pace con i vicini e la pace con i lontani; ed è per questo che il fascismo arriva con la denigrazione della cultura, con la lotta contro la scuola, con la omologazione mediatica dei cittadini, con l'esaltazione della capacità comunicativa come capacità di governo, con la costruzione del nemico, con l'appello alla paura. L'esperienza storica è che il fascismo si prepara molto tempo prima che si impadronisca del potere, quando ancora non si immagina che la strada imboccata porti a quell'esito. Per questo i costituenti presero le loro precauzioni, vollero una Costituzione non "afascista", ma antifascista; dove l'antifascismo non stava nelle norme transitorie e nel divieto della ricostituzione del partito fascista, e nemmeno nell'affermazione puramente formale delle libertà. Esso stava invece nel disegno e nella concezione stessa dello Stato; e si può dire che il discrimine fosse proprio nell'articolo 3 della Costituzione, laddove si attribuisce alla Repubblica un compito a cui lei sola è obbligata: quello di operare in positivo per rompere i condizionamenti economico-sociali che ostacolano o impediscono la libertà, l'eguaglianza, lo sviluppo personale dei cittadini e la loro effettiva partecipazione all'organizzazione del Paese. Da qui discendono due concezioni dello Stato. Se l'ideale è uno Stato minimo, più mercato e meno Stato, uno Stato senza soldi, meno tasse per tutti, quei compiti non li potrà assolvere. Ancora peggio, se uno Stato che ha bisogno del gettito fiscale per la scuola pubblica, per la giustizia, per la sicurezza, per lo sviluppo del Sud, per gli investimenti strutturali, e magari anche per l'Alitalia, per i treni, per i beni culturali, viene accusato di "mettere le mani in tasca agli italiani", è chiaro che non potrà creare le condizioni di una convivenza giusta e pacifica, e non gli rimarrà che spendere i soldi che gli restano per la repressione e per le carceri. Ma è appunto da qui che nasce il fascismo, ed è qui che la politica stessa è fascismo.

mercoledì 30 luglio 2008

La grande selezione e l'assedio


Nulla di fatto ai negoziati dell'organizzazione mondiale del commercio (WTO), affossati dallo scontro dallo scontro tra i paesi ricchi e quelli in via di sviluppo, capitanati da Cina e India. In cambio della riduzioni dei sussidi protezionistici all'agricoltura nell'occidente, i paesi in via di sviluppo mettevano sul piatto la riduzione dei dazi sull'export da occidente. Un ginepraio di veti incrociati e interessi contrapposti
La marcia trionfale della globalizzazione si e' fermata? Da tempo in realta' l'idea che l'economia mondiale fosse inevitabilmente destinata a crescere sempre piu' con benefici a cascata per tutti, ha perso credibilita' e utilita'. Il mito del libero mercato si sta invece rivelando sempre piu' per quello che e' (o e' stato), uno strumento dei ricchi per diventare ancora piu' ricchi, per operare una gigantesca selezione, per rompere l'unita' del mondo. Scriveva Raniero La Valle in "Prima che l'amore finisca", nel 2003:

Se infatti tutto il mondo non si puo' sviluppare, perche' nel mercato globale sono finite le illusioni di uno sviluppo universale e continuo, che cresca e si arricchisca solo una parte. Gli appagati e gli esclusi. Se il cibo non si puo' distribuire a tutti, e nemmeno per il 2015 si potra' dimezzare il numero di quel miliardo e trecento milioni di persone che vivono nella poverta' piu' assoluta, con meno di un dollaro al giorno, che almeno siano abbondanti le mense degli altri. I sazi e gli affamati. Se il lavoro umano deve essere distrutto, perche' il fattore piu' caro tra i costi di produzione , lo si conservi solo per coloro che non possono essere sostituiti dalle macchine. I necessari e gli esuberi. Se tutta la Terra non si puo' salvare, perche' i mari si innalzeranno, e ci sono isole, e continenti e popoli a perdere, che si attrezzi, e si cinga di mura, e si riempia di armi quella che deve sopravvivere, che non deve naufragare. I sommersi e i salvati. Questa e' la scelta fatta dall'attuale sistema dinanzi alla crisi da esso stesso prodotta. Il mondo non si puo' aggiustare per tutti? La risposta e' la Grande Selezione. Il Mercato non e' forse efficace proprio perche' selettivo? E oggi, appunto, tutto e' Mercato"

Eppure qualcuno dei giganti che stavano sotto ha provato ad alzare la testa, a costi in vite e dignita' umana indicibili, e vuole partecipare da attore protagonista al grande show del libero Mercato, proprio alla vigilia di una crisi mondiale senza precedenti. La Grande Selezione comincia a fare acqua. Per correre ai ripari si cambiano allora le regole: aiuti di stato, dazi, aumento dei prezzi, ricorso alle armi. E se i nuovi venuti non ci stanno, peggio per loro. Tanto le regole le facciamo noi. E infatti il ministro dell'Agricoltura (del governo sulla carta paladino del libero /mercato) esalta il fallito accordo perche' "protegge i prodotti italiani". E' cominciato l'assedio?

lunedì 21 luglio 2008

Sinistra Cristiana


Ricevo e sottoscrivo l'appello di Raniero La Valle con cui giovedì scorso 10 luglio ha presentato a Palermo un nuovo "servizio politico" denominato Sinistra Cristiana: "una tradizione antica, che si può riproporre oggi per pensare di nuovo la politica e farla di nuovo. Non senza alleanze, incontri e salutari meticciati. Non per il potere di pochi ma per la salvezza di molti".

Siamo tutti vittime di una disfatta della politica che, dopo la rimozione del muro di Berlino, vissuta come la vittoria ultima di una parte sull’altra, ha rinunciato a fare un mondo nuovo preferendo rilanciare il vecchio, a cominciare dal suo ancestrale sovrano “diritto alla guerra”. Ciò facendo i poteri dell’Occidente hanno abdicato alla responsabilità di guidare il corso storico, mettendo tutto nelle “mani invisibili” del Mercato, del quale si sono fatti sudditi, guardiani e sacerdoti. E questo lo dice pure Tremonti, dal fondo del pensiero reazionario Ma poiché il meccanismo così innescato ha creato isole di ricchezza in un oceano di naufraghi, incrementando povertà, insicurezza e disordine, la politica si è fatta polizia per domare terroristi e riottosi, alzando il livello di violenza preventiva e repressiva e mettendo sotto i piedi verità, diritto, Costituzioni e Convenzioni internazionali, ivi comprese quelle umanitarie. E questo non lo fa solo Tremonti, lo hanno fatto classi dirigenti di destra e di sinistra, anche in regimi inutilmente bipolari.
Oggi non solo c’è bisogno di tornare alla politica da cui molti con giusto disappunto si sono allontanati, come hanno fatto due milioni e mezzo di nuovi astenuti nelle ultime elezioni, ma c’è bisogno di una politica “altra”; né del resto alla vecchia politica questo ritorno sarebbe possibile, né ad essa possibile l’approdo dei giovani; c’è bisogno di una ricostruzione della politica come un “essere per gli altri”, a cui tutti sono chiamati. Perciò rivolgiamo questo Appello alle donne e agli uomini che vogliono operare per la giustizia per un ritorno alla politica. Proponiamo pertanto di promuovere con il nome di Sinistra cristiana una rete di Gruppi, di aggregazioni e di servizi “per la Costituzione, la laicita’ e la pace”: cioè per l’unità degli uomini nella giustizia e nel diritto, per la responsabilità comune di “credenti” e “non credenti”, per la crescita del mondo. Dire Sinistra cristiana non significa qui riferirsi alla pur positiva esperienza che ebbe questo nome dal 1938 al 1945, né crearne oggi una nuova, ma fare appello a quella sinistra cristiana che è già nel Paese ed è nascosta nel fondo di molti di noi. Ciò comporta una scelta di campo di sinistra, cosa che in un’Italia drasticamente divisa in due sole parti politiche non significa più sposare una determinata ideologia, ma assumere il peso della contraddizione, mentre della sinistra rivendica la dignità, contro tutte le delegittimazioni e diffamazioni.
Si tratterebbe di dar vita ovunque sia possibile, nel territorio nelle istituzioni e nelle assemblee elettive, a un “Servizio politico” che da un lato abbia lo scopo di favorire la partecipazione politica dei cittadini, offrendo loro, indipendentemente dalle rispettive opinioni, dei servizi e degli aiuti per agevolarli nell’adempimento dell’art. 49 della Costituzione; dall’altro che abbia lo scopo, come parte tra le parti, di promuovere in modo associato iniziative, corsi e scuole di formazione politica, riattivare canali di comunicazione coi giovani, elaborare culture, soluzioni e proposte legislative, intervenire nel dibattito pubblico e, se necessario, partecipare anche direttamente all’azione politica per concorrere a determinare con metodo democratico la politica nazionale e instaurare la giustizia e la pace tra le nazioni, sempre promuovendo alternative costruttive e nonviolente nei conflitti; e ciò entrando nelle contraddizioni in atto, tra cittadini e stranieri come tra uomini e donne, tra regolari e clandestini, tra necessari ed esuberi, e cercando di ristabilire i legami tra il quotidiano, la cultura, la politica e una speranza nuovamente credibile; sapendo che se non subito si può cambiare il mondo, si può intanto cambiare il modo di stare al mondo.
La definizione di questa rete di Gruppi e di iniziative come “Servizio politico”, intende non solo identificare il criterio della politica nel servizio e non nel potere, ma anche riprendere la radicale illuminazione secondo la quale il vero modo per evitare che nella vita collettiva gli uni siano nemici degli altri, è che tutti si riconoscano servi gli uni degli altri.
Il nome di Sinistra cristiana, poi, non comporta un’identificazione confessionale, che in nessun modo può confondersi con una divisa politica, ma intende alludere a un mondo di valori, tutti negoziabili, ossia non imposti, purché prevalgano l’amore e la libertà, vuole indicare come discriminante il principio di eguaglianza e, nel conflitto, significa fare la scelta dei poveri delle vittime e degli esclusi. Si tratta dunque di un nome nuovo che si riferisce tuttavia a una ricca e variegata tradizione di impegno politico che va da Murri a Sturzo a Dossetti, dai cristiani della Resistenza ai “professorini” della Costituente, da Rodano a Ossicini a Gozzini, dalla cruenta testimonianza di Moro a quella della salvadoregna Marianella Garcia Villas, che hanno attraversato il Novecento italiano.
Quanti intendono associarsi a questo appello sono invitati a farsi promotori delle relative iniziative nelle realtà a cui ciascuno appartiene, salvo poi ogni possibile coordinamento. E se per ottenere risultati è necessario coinvolgere molti, anche due o tre che si riuniscano per queste cose già compendiano tutto il significato dell’azione.
Per un incontro di carattere nazionale, da convocarsi a settembre, si può prevedere fin da ora di mettere all’ordine del giorno, come primissime urgenze, il ritorno alla rappresentanza proporzionale senza snaturamenti maggioritari, e l’affermazione del principio che i diritti sono uguali per tutti: dove la proporzionale è la condizione per non dare troppo potere a qualunque “sovrano del popolo” e perché anche una minoranza possa continuare a rivendicare diritti uguali per tutti contro maggioranze che li neghino.

Raniero La Valle, Patrizia Farronato, Giovanni Galloni (ex vice-presidente del Consiglio superiore della Magistratura), Rita Borsellino, Adriano Ossicini (presidente onorario del Comitato nazionale di bioetica), Carla Brusati Barbaglio, Mimmo Gallo (magistrato di Cassazione), Giuseppe Campione (ex-Presidente della Regione siciliana), Boris Ulianich (storico del cristianesimo), Annamaria Capocasale (segretaria della Scuola “Vasti”), Roberto Mancini (ordinario di filosofia teoretica all’università di Macerata), Amelia Pasqua, don Mario Costalunga, Laura Brustia, Francesco De Notaris, Agata Cancelliere, Giovanni Franzoni, Renata Ilari, Giovanni Avena (direttore editoriale di Adista), Emilia Carnevale, Giulio Russo(responsabile del Centro di servizi per il volontariato), Nicola Colaianni, Padre Nicola Colasuonno (direttore di Missione oggi), Donatella Cascino, Pasquale Colella, Franco Ferrara, Padre Alberto Simoni (direttore di Koinonia), Bernardetta Forcella, Giovanni Benzoni, Angelo Bertani, Enrico Peyretti, Francesco Comina, Chiara Germondari, Ettore Zerbino, Alessandro Baldini (Comitati Dosseti per la Costituzione), Claudio Bocci, Antonio Cascino, Anna La Vista, Federico D’Agostino, Pasquale De Sole, Franco Ferrari, Gianvito Iannuzzi, Luca Kocci, Angela Mancuso, Gianfranco Martini, Giuseppe Mirale, Francesco Paternò Castello, Maria Antonietta Piras, Fiammetta Quintabà, Corrado Raimeni, Maurizio Serofilli (Comitati Dossett per la Costituzione), Gabriella Saccami Vezzami, Luca Spegne, Maria Rosa Tinaburri, Paola e Claudio Tosi, Angelo Cifatte, Piero Pinzauti, Nanni Russo, Alessandra Chiappino (presidente dell’Istituzione Servizi educativi, scolastici e per le famiglie di Ferrara), Enrico Grandi (prof. anatomia patologica all’Università di Ferrara), Franco Borghi...

Per aderire all’appello: manifestosinistracristiana@adista.it
specificando nome, cognome, indirizzo, professione e recapito postale telefonico e informatico. I firmatari saranno poi invitati a una riunione costituente per decidere come condurre il seguito dell’iniziativa.


Perché questo appello

Perché questo appello. L’idea è nata nei circoli della Scuola di antropologia critica “Vasti, che cos’è umano?”, al termine di un ciclo di seminari dedicato alla convivenza in cui si sono anche discussi i più recenti contributi in tema di teoria generale del diritto e della democrazia e di rapporti fede-mondo.
Il punto di partenza è stato l’analisi della gravissima crisi interna e internazionale, giunta ormai nel nostro Paese, con la lotta agli immigrati, i Rom trattati come lo furono gli ebrei e con la sottrazione dei processi ai giudici, ad attaccare gli stessi diritti primari di libertà ed eguaglianza; ed è giunta nel mondo, con la scelta di produrre petrolio invece di cibo, di costruire muri invece di porte e di armare la vita quotidiana, a dare per perduta e nemica una gran parte della popolazione della terra. Tutto ciò rischia di risolversi in un fascismo strutturale sia in Italia che nel mondo.
E in tali frangenti i cristiani dove sono? E Dio dov’è?
Le autorità della Chiesa si fanno vedere, ma i cristiani non ci sono. Prima di tutto non ci sono perché non c’è più il popolo, che pur doveva essere il grande protagonista della democrazia; il popolo non c’è perché all’economia non serve, quando riduce i cittadini a clienti, i sindacati lo hanno perduto, intenti come sono a salvare il salvabile (ed è poco) con il concerto piuttosto che col conflitto, e i politici si nominano da soli. Fuori del popolo, inteso come organismo, le famiglie ideali non ci sono, le identità franano nell’amalgama della secolarizzazione di massa e le differenze finiscono in ostilità non più politicamente mediate.
Ma i cristiani non ci sono anche perché sono caduti in equivoco sulla laicità. Hanno creduto anch’essi, come fa la modernità, che la laicità consista nel non essere o non manifestarsi credenti, mentre essa consiste nel vivere ogni realtà creaturale come profana e non come sacra, cioè disponibile all’uomo, non sottratta all’uso e alle responsabilità comuni, non gravata da riserve e da interdetti, non sequestrata da specialisti togati a ciò specialmente consacrati. Questa laicità non si contrappone a fede o a religione, perché il sacro non è la stessa cosa di Dio, non è la stessa cosa della Chiesa ma, fuorviato, diventa piuttosto la custodia cautelare con cui Dio è tenuto sotto controllo, la forma del suo esilio dal mondo, del mettersi al riparo da lui, una contraffazione e una copia di Dio, come si può sapere almeno da quando Gesù di Nazaret, come dice il vangelo, ce lo ha fatto “vedere”.
Per far fronte alla crisi anche i cristiani ci vogliono, ed è strano che la sinistra se lo sia dimenticato mentre il partito comunista lo aveva capito. Ma non ci vogliono i cristiani come categoria politica, perché questo significherebbe ricadere in vecchie pratiche integriste e confessionali, bensì ci vogliono come il grido che reclama una qualità della politica che dovrebbe essere a tutti comune.
Una qualità della politica che l’imperatore Giuliano riconosceva ai cristiani, quando nel ripristinare il paganesimo, voleva però emulare e anche superare l’amore che essi mettevano nella vita sociale; una qualità della politica che consiste “nell’agire in modo che comportamenti atti o scelte nell’operare quotidiano non siano spiegabili soltanto sulla base di mere opportunità politiche o di convenienze personali”, come rispondeva don Giuseppe De Luca a chi lo interrogava sullo specifico cristiano nell’azione comune con i non credenti; una qualità che consiste nel non contentarsi di aver vinto ma andare oltre per una ulteriore giustizia, come diceva don Lorenzo Milani a Pipetta; nel mantenere sempre “un principio di non appagamento” rispetto a ogni società data, come diceva Aldo Moro; nel percepire che “l’altro non va solo rispettato, ma amato; che l’altro non è solo una persona, è anche un fratello, che la libertà dell’altro non solo è il limite della libertà mia, ma è la condizione della libertà mia, che se l’altro non è libero non sono libero neanche io”, come diceva Claudio Napoleoni quando si chiedeva “se solo un Dio ci può salvare”; una qualità della politica che consiste nel ricordarsi che la cosa più importante non è difendere la propria sicurezza e la propria vita, perché la speranza supera la sicurezza e la vita si può perdere per guadagnarla. In ciò, almeno nell’ambito di quella piccola scuola, ma non solo in questa, si sono trovati e sono d’accordo cattolici e valdesi, cristiani e non cristiani, “credenti” e “non credenti”.

Sinistra Cristiana - articolo di Raniero La Valle (apparso su Rocca)

Nel deserto creatosi in Italia con le ultime elezioni, già popolato però dai fantasmi dell’intolleranza e del razzismo, molti cantieri sono all’opera per una ripresa in diverse forme del discorso politico. C’è un cantiere aperto nella destra, per costruire l’immagine di un “nuovo” Berlusconi e di uno squadrismo non fascista; c’è un cantiere aperto nella ridotta veltroniana, dove sembra annunciarsi una riconversione alle alleanze e il desiderio di un “nuovo centro-sinistra”; c’è un cantiere aperto nella sinistra, dove è in gioco il futuro di Rifondazione e di tutti i colori dell’arcobaleno.Non c’è un cantiere per i cattolici: non avrebbe senso perché i cattolici non sono una categoria politica e la loro aggregazione non è un partito ma una Chiesa. Non che essi non siano influenti: molti di loro sono presenti nell’uno e nell’altro schieramento, e quanto a influenza nella società e nelle istituzioni la Conferenza episcopale italiana non è seconda a nessuno. Ma la stagione dell’unità politica dei cattolici è per fortuna conclusa, e ci sono buone ragioni politiche, teologiche ed ecclesiali che ne sconsigliano fermamente ogni possibile restaurazione.

Mentre sono al lavoro tanti cantieri, nella politica italiana si avverte tuttavia un vuoto pauroso, derivante dall’assenza di soggettività politiche che furono in altri momenti assai importanti e anche decisive per la crescita democratica e spirituale del Paese. Nessun problema di identità perdute, che sarebbe sterile e regressivo rivendicare. Ma c’è un problema di contenutielaborazione e di lotta politica che, soprattutto dopo la crisi e la sconfitta delle sinistre storiche nel tempo della globalizzazione, rischiano di essere gravemente compromessi nella progettazione del futuro. Se ne possono fare diversi elenchi; noi ne facciamo uno traendolo da fonti insuperabili della nostra tradizione comune; è l’elenco risultante dalla somma dei “segni dei tempi” della Pacem in terris e del privilegio attribuito ai poveri, ai sofferenti e ai militanti per la giustizia dalle Beatitudini evangeliche.
Si tratta di contenuti che sono assunti dal linguaggio profano e riguardano realtà storiche e temporali, proiettate però verso una pienezza di umanità quale è desiderata da Dio. L’elenco che ne risulta è questo: ascesa delle classi lavoratrici e riscatto personalista del lavoro; dignità realizzata della donna, liberazione dei popoli dal dominio; pace come alternativa complessiva alla guerra illegittima e contraria alla ragione; democrazia internazionale e sviluppo dell’ONU, regole per il potere, diritti fondamentali e loro garanzia nelle Costituzioni; eguaglianza per natura di tutti gli esseri umani e anche delle comunità politiche; rovesciamento in una felice condizione umana dell’afflizione dei poveri, dei perseguitati, dei piangenti, delle vittime d’ingiustizia.
Non si tratta di postulati ideologici, si tratta di contenuti politici che di fatto, nell’attuale bipartizione politica che schiaccia la realtà sui due poli di destra e di sinistra, figurano come contenuti di sinistra. Per sostenerli ed attuarli potrebbero riunirsi in forma organizzata e “in modo onesto” dei gruppi di cattolici e cristiani disponibili all’impegno politico: non tutti, perché sulla sostanza e sulla realizzazione di queste cose ci sono tra i cristiani, legittimamente, come dice il Concilio, opinioni diverse e d’altronde, ponendosi questi cristiani apertamente come parte, né pretenderebbero con piglio integristico di rappresentare tutti i fedeli, né potrebbero in modo clericale rivendicare a proprio favore l’autorità della Chiesa.
Ma con quale nome potrebbero affacciarsi alla scena? Un pregiudizio fondato su una errata accezione della laicità (fare finta che la fede non ci sia), e il linguaggio oggi “politicamente corretto”, porterebbero questi credenti a restare anonimi, prendendo nomi di fantasia, tipo «Pace e diritti», «Pace e lavoro» e simili. Ma anche questa stagione è passata. Se il nome deve corrispondere alla cosa, a contenuti di sinistra e al lottare per essi come cristiani, conviene il nome di «sinistra cristiana». È un nome che si può assumere, nel deserto di cui abbiamo detto, senza infingimenti e senza autocensure. Non esprime un’ideologia: una sinistra cristiana è stata presente in Italia sotto diversi nomi e in diverse forme: perfino l’Opera dei Congressi fu di sinistra quando approdò all’antitemporalismo; e così fu l’«Avvenire d’Italia» di Rocco d’Adria; di sinistra cristiana furono l’intransigentismo, il proporzionalismo e la posizione anti-clericomoderata di Sturzo, lo sono stati poi i partigiani cristiani, i professorini che hanno scritto le pagine più alte della Costituzione repubblicana, la sinistra cristiana di Ossicini e di Rodano e quella democristiana di Vanoni, Mattei, Pistelli, Granelli, la Sinistra Indipendente del 1976 e la scelta politica finita nel martirio di Moro.
È una tradizione antica, che si può riproporre oggi per pensare di nuovo la politica e farla di nuovo. Non senza alleanze, incontri e salutari meticciati. Non per il potere di pochi ma per la salvezza di molti.

Raniero La Valle

mercoledì 16 luglio 2008

Il precipizio dei 3monti


Grazie a Cosimo per questo articolo di Raniero La Valle dalla rubrica "Resistenza e pace", in uscita sul prossimo numero del quindicinale di Assisi Rocca.

Ha scritto Famiglia cristiana" a proposito "dell'indecente proposta razzista di prendere le impronte digitali ai bambini Rom": "Stiamo assistendo al crepuscolo della giustizia e alla nascita di un diritto penale straordinario per gli stranieri poveri"; addirittura un ministro (Maroni) "propone il concetto di razza nell'ordinamento giuridico. Perché di questo si tratta. Come quando i bambini ebrei venivano identificati con la stella gialla al braccio, in segno di pubblico ludibrio". Lo scandalo espresso dalla rivista cristiana è perfettamente giustificato, e interpreta anche i sentimenti di molti che purtroppo sono restati in silenzio. Ma le cose stanno in modo assai più grave di quanto è stato qui rappresentato. Infatti non si tratta di un rigurgito di razzismo nei confronti di una sola "razza", di una sola etnia. Le misure contro i Rom sono l'annuncio e l'emblema di una nuova cultura razzista, che per la prima volta un governo italiano fa propria, che si rivolge contro tutte le razze e contro tutte le etnie che sono sentite come minacciose e straniere nei confronti delle nostre sicurezze, e di una nostra barcollante identità: "nostra" nel senso di "italiana", "europea" e, più in generale, "occidentale" ovvero, per chiamarla col suo nome politico, "atlantica". In questo senso l'impronta presa ai bambini Rom è in realtà la vera impronta di questo governo e della cultura che la nuova destra vorrebbe imporre all'intera società. Per capire di che cosa si tratti, basta andare a leggere il libro da poco pubblicato, non senza successo di vendite, dal più autorevole ministro dell'attuale governo, Giulio Tremonti. Perché tutto era già scritto, e tutto è scritto di quello che si vuole per il nostro futuro; purtroppo la sinistra (e non solo) non sa leggere; altrimenti non se ne starebbe tanto tranquilla, o non si occuperebbe solo di Berlusconi. Quello che è scritto non è altro che Oriana Fallaci che avanza. Nel suo libro, "La paura e la speranza", Tremonti rivendica la figura dell'intellettuale nella politica: "Il politico, se non è intellettuale, non è". E lui aspira ad essere per tutta la destra di governo quell'intellettuale che Gianfranco Miglio fu per la Lega. Il punto da cui muove Tremonti è una critica feroce alla globalizzazione, quale da nessun "no global" si era mai sentita. La globalizzazione ci sta consegnando "a un futuro senza futuro", a causa del fatto che "abbiamo firmato una cambiale mefistofelica con il 'dio mercato' ". L'utopia mercatista, il mito del mercato unico sarebbe la causa di tutto il male. Questo male Tremonti lo chiama "mercatismo": "la fanatica forzatura del mondo nel liberismo economico, la fede illusoria in cui tantissimi hanno creduto negli ultimi anni": ma questo è il capitalismo, ragazzi! Forse che Tremonti, e tutta la sua destra, sono diventati socialisti? No, sono ancora più radicalmente reazionari. Perché "la paura" è che tutti vogliano consumare come noi. Pensate che "i cinesi, per esempio, che nel 1985 consumavano mediamente 20 chili di carne all'anno, oggi ne consumano 50"!. Ed è ragione di autentico "terrore" che (sempre "per esempio") "200 o 300 milioni di cinesi abbiano nei prossimi anni la loro automobile". Il rimedio è di "fermare ovunque il mercatismo": cioè chiudere il mercato, che sia solo per noi. L'Europa deve mettere dogane e frontiere sigillate. Deve difendere la sua identità, che poi sta nelle famose "radici giudeo-cristiane". Perché senza valori, non c'è identità, non c'è un "noi". Invece il problema è proprio quello di salvare "noi" e buttare a mare gli altri: "L'inclusione degli 'altri' in Europa può proseguire, però solo se gli 'altri' cessano di essere 'altri' e diventano 'noi'. Quindi: o sono gli 'altri' a rinunziare alla loro identità, venendo in Europa, o è l'Europa stessa che perde la sua identità e va così a porte aperte incontro alla sua disintegrazione". E anche nei confronti degli 'altri' esterni occorre un potere che imponga i propri valori ("non necessariamente valori universali") "dentro un programma di pura difesa". Dunque la guerra. Il cancro che devasta l'Occidente, secondo Tremonti, avrebbe la sua origine nel '68, e consiste nel pensare che gli "altri" sono come "noi". Occorre perciò "una politica opposta alla dittatura 'sfascista' del relativismo". Quando il Papa cominciò la sua battaglia contro il relativismo, chi mai avrebbe potuto pensare che nella sua ultima traduzione politica il relativismo da combattere sarebbe stato individuato dalla destra nell'idea che gli altri sono come noi, e hanno il diritto di vivere come noi? Ciò che oggi propone la destra per fronteggiare gli spiriti selvaggi del mercato da lei stessa scatenati, è dunque la difesa del nostro possesso ("identità, valori, consumi e ricchezza) contro quello degli "altri". Non è un rimedio, è un precipizio.

lunedì 16 giugno 2008

Sotto il voto cattolico niente


Ricevo da Cosimo questo articolo di Raniero La Valle, dalla rubrica "Resistenza e pace" in uscita sul prossimo numero del quindicinale di Assisi, Rocca.

Circolano degli studi, condotti con encomiabile rapidità dai professori Paolo Segatti e Paolo Natale, sulla dislocazione del voto cattolico nelle recenti elezioni politiche che hanno dato il trionfo alla destra. Su tali studi, nel giro di pochi giorni, ci sono stati due convegni a Roma, uno all'università Gregoriana organizzato da Dario Franceschini e dalla sua rivista "Questa fase", l'altro nei pressi di Montecitorio organizzato dai cristiano-sociali del Partito democratico.

Da questi studi, e dai relativi convegni, è risultata una singolare verità: sotto il voto cattolico, niente. È la prima volta che ciò accade da quando, attraverso la DC, il voto cattolico era determinante per qualsiasi risultato elettorale. Questa volta viene fuori che il voto dei cattolici si è spalmato tra i partiti, più o meno nelle stesse proporzioni in cui si è distribuito l'elettorato in generale. Naturalmente ci sarebbe da discutere chi siano, veramente, i cattolici. Secondo i parametri dei sociologi sono quelli che con maggiore o minore frequenza vanno a messa (con un declino del 6 per cento negli ultimi dodici anni), dichiarano la loro appartenenza alla Chiesa e mantengono qualche pratica di usanze cristiane; si tratta di circa un terzo dell'elettorato. Così identificati, essi per il 42 per cento hanno votato a favore del Popolo della libertà di Berlusconi, per il 36 per cento a favore del Partito democratico di Veltroni, mentre per il 4 per cento hanno votato a favore dell'Unione di centro di Casini. Si sono fatte anche analisi più dettagliate, ma il risultato complessivo non cambia, ciò che fa dire a quanti hanno commentato questi studi che "è finita la questione democristiana", "è finito il cattolicesimo democratico" o addirittura "è finita la questione cattolica".

In un senso più profondo, e meno elettoralistico, le analisi dicono che si sarebbe creato una specie di amalgama in cui non c'è più una distanza culturale tra cattolici e "laici", tutti rientrando in una grande area multiforme di secolarizzazione di massa, in cui prevale una linea "neolibertaria tecnocratica e neoscientista", le cui caratteristiche salienti sarebbero il primato della soggettività, un individualismo anomico (per sé) e un desiderio normativo (per gli altri), la perdita della socialità e una mancanza di reattività (anche da parte della stessa gerarchia cattolica) alla "deriva neopagana" della Lega.

Se così stanno le cose, in questa cultura gelatinosa un Berlusconi che produce una legislazione penale e civile ormai ignara di ogni memoria di solidarismo e di mansuetudine cristiani, e nello stesso tempo si proclama "anarchico nell'etica", va benissimo.

Così, al culmine del processo volto a creare un'Italia apolitica e a bipartitismo perfetto, la qualità cristiana di una parte consistente dell'elettorato è pervenuta alla perfetta irrilevanza, sicché i partiti residui rimasti sulla scena la possono tranquillamente ignorare. Non che ci sia una irrilevanza della Chiesa come istituzione, a cui infatti sono molto attenti atei devoti e laici bigotti; ma secondo le statistiche riferite in questi studi il 74 per cento dei praticanti "ascolta la Chiesa e poi decide in base alla propria coscienza".

In effetti dopo tanti conflitti al calor bianco tra Chiesa e società politica sulla difesa della vita "dal concepimento alla morte naturale", sulle coppie non sposate e sulla fecondazione assistita, in cui ai cattolici sono stati chiesti soprattutto comportamenti oppositivi o astensionistici, anche dal voto, un'era di glaciazione sembra essere scesa tra Chiesa e società italiana. Alle generazioni dei cattolici della speranza succede ora una generazione di cattolici tristi. Sembra che non ci sia più niente da osare, la vita di trincea è una vita di cupa tristezza, e nei rifugi si asfissia. La realtà che si offre al nostro sguardo è avara di segni dei tempi. Non molti decenni fa si potevano scrutare dei segni che annunciavano un mondo più umano, dove la guerra era fuori della ragione. Oggi per avere un'idea del futuro che ci attende dobbiamo scrutare con quanta cupidigia Berlusconi afferra il braccio e bacia la mano del Papa.

La cosa non riguarda solo i cattolici. Come la questione cattolica è stata all'origine della democrazia italiana, così la fine della questione cattolica potrebbe anche segnare la fine della questione democratica in Italia. Per questo ci chiedevamo nel numero scorso se, venuta meno come è giusto la funzione politica dei cattolici presi tutti insieme come categoria politica indifferenziata, non si debba richiamare in vita dalla nostra tradizione l'esperienza di quei cristiani che seppero essere parte, e che a nostro avviso, da Romolo Murri a Luigi Sturzo alle Fiamme Verdi, a Franco Salvi e alla Resistenza, alla Costituente e a Moro, seppero stare dalla parte giusta: l'esperienza che sotto diversi nomi è stata quella di una "sinistra cristiana"; per non restare indifferenti alla cacciata e alla morte dei poveri.