La politica come fascismo
Era uno scandalo che il ministro della difesa,  celebrando la resistenza romana dinnanzi al presidente della Repubblica, avesse  ripreso il tema dell'equivalenza tra antifascisti e repubblichini di Salò, i  quali avrebbero combattuto anch'essi credendo di difendere la patria. Uno  scandalo perché se il ministro della difesa non sa distinguere tra vera e falsa  difesa della patria, quale patria oggi sarebbe pronto a difendere? Altrettanto  inquietante era stata la rivalutazione del fascismo, a parte gli ebrei, fatta  dal sindaco di Roma. Se per giudicare un regime nefasto si distingue tra male  assoluto e relativo, riservando la condanna al solo male assoluto, allora nessun  regime potrebbe essere condannato, perché il male assoluto, grazie a Dio, non  esiste, quando perfino ad Auschwitz, come ci ha mostrato Roberto Benigni, si può  dire che "la vita è bella", se può fiorirvi l'amore anche di uno solo. Dopo il  fermo rimprovero del Presidente Napolitano, in difesa della Costituzione,  Gianfranco Fini è corso ai ripari, rivendicando i valori dell'antifascismo, che  dovrebbero essere fatti propri anche dalla destra; anzi è proprio perché non c'è  stata una destra in grado di riconoscersi nei valori antifascisti, secondo Fini,  che "libertà, uguaglianza e giustizia sociale", che sono i fondamentali  postulati costituzionali, hanno avuto vita difficile in Italia. Tutto bene allora? Certamente è bene che a  rivendicare le radici antifasciste della Repubblica, sia proprio il leader di  quella destra  che del fascismo si  era presentata come erede. Ma al di là della disputa storica sulla  periodizzazione del fascismo, e dell'opportunismo politico che può aver ispirato  la presa di posizione di Fini, resta il fatto che la questione del fascismo è  ancora aperta in Italia, ed è proprio la destra a rendere legittima una  interpretazione della politica italiana in termini di fascismo o antifascismo. È  una constatazione importante, perché finora tutti i tentativi di denunciare come  fascismo le linee maestre dell'azione politica di Berlusconi, o il razzismo  della Lega, e l'allarme sul pericolo fascista insito nelle riforme delle leggi  elettorali e della stessa Costituzione, sono stati bollati come ideologici e  insostenibili, con l'argomento che la storia non si ripete e in nessun caso in  Italia potrebbe riprodursi una sciagura come quella fascista. Invece potrebbe  ripetersi, ed è proprio la destra di governo a risuscitarne il fantasma. Certo  il fascismo non tornerebbe con le camicie nere e l'olio di ricino (oggi si usano  le spranghe), ma al di là delle forme, c'è un contenuto profondo del fascismo,  un classismo ontologico, un'antropologia della disuguaglianza, una concezione  esclusivista del potere, un primato della forza e, non ultimo, un culto del  denaro, che fanno del fascismo un archetipo politico che sottende e può  esplodere in qualsiasi società. L'antidoto è la cultura, l'informazione,  l'educazione a uno spirito non gregario, la dignità della critica, la pace con i  vicini e la pace con i lontani; ed è per questo che il fascismo arriva con la  denigrazione della cultura, con la lotta contro la scuola, con la omologazione  mediatica dei cittadini, con l'esaltazione della capacità comunicativa come  capacità di governo, con la costruzione del nemico, con l'appello alla paura.   L'esperienza storica è che il fascismo si prepara  molto tempo prima che si impadronisca del potere, quando ancora non si immagina  che la strada imboccata porti a quell'esito. Per questo i costituenti presero le  loro precauzioni, vollero una Costituzione non "afascista", ma antifascista;  dove l'antifascismo non stava nelle norme transitorie e nel divieto della  ricostituzione del partito fascista, e nemmeno nell'affermazione puramente  formale delle libertà. Esso stava invece nel disegno e nella concezione stessa  dello Stato; e si può dire che il discrimine fosse proprio nell'articolo 3 della  Costituzione, laddove si attribuisce alla Repubblica un compito a cui lei sola è  obbligata: quello di operare in positivo per rompere i condizionamenti  economico-sociali che ostacolano o impediscono la libertà, l'eguaglianza, lo  sviluppo personale dei cittadini e la loro effettiva partecipazione  all'organizzazione del Paese. Da qui discendono due concezioni dello Stato. Se  l'ideale è uno Stato minimo, più mercato e meno Stato, uno Stato senza soldi,  meno tasse per tutti, quei compiti non li potrà assolvere. Ancora peggio, se uno  Stato che ha bisogno del gettito fiscale per la scuola pubblica,  per la giustizia, per la sicurezza, per  lo sviluppo del Sud, per gli investimenti strutturali, e magari anche per  l'Alitalia, per i treni, per i beni culturali, viene accusato di "mettere le  mani in tasca agli italiani", è chiaro che non potrà creare le condizioni di una  convivenza giusta e pacifica, e non gli rimarrà che spendere i soldi che gli  restano per la repressione e per le carceri. Ma è appunto da qui che nasce il  fascismo, ed è qui che la politica stessa è fascismo.  
Riporto l'articolo di Raniero La Valle della rubrica "Resistenza e pace" in uscita sul  prossimo numero del quindicinale di Assisi, Rocca.
  
 

 
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