martedì 7 ottobre 2008

Elitismo e antielitismo


Un articolo di Luca Sofri, sull'Unita' e su Wittgenstein, sul passaggio recente da una democrazia elitista, in cui chi e' al potere ha la responsabilita' di guardare piu' avanti dei cittadini che l'hanno eletto, a una demagogia antielitista, dove chi vuole farsi eleggere ha il dovere di non farsi percepire troppo diverso (o ancora meglio inguaribilmente peggiore) dalla maggioranza dei suoi elettori, mostrando la stessa miopia nel navigare a vista e la stessa grettezza nel pensare solo al proprio interesse.

Elitismo. Elitismo. Elitismo. Intanto bisogna cominciare a fare i conti con la parola, e abituarsi. Elitismo. È una brutta parola, ma non lo è. È un concetto politico e culturale, niente di cui vergognarsi. Elitismo. Ripetetela a mente mentre vediamo perché è dilagata nel dibattito politico americano, e perché bisognerebbe avere il coraggio di discuterne anche da noi.
È dilagata per via del successo del suo contrario, che gli americani hanno chiamato antielitismo. L’antielitismo, sommariamente, è quella ormai solida consuetudine per cui riteniamo più adatte a ruoli di potere e gestione della cosa pubblica persone che non ne abbiano competenze particolari o superiori alla media, ma che invece siano cittadini “come gli altri”. Persone “normali”, piuttosto che persone “speciali”.
Il caso più eclatante, e che ha fatto traboccare il vaso della pazienza di molti commentatori statunitensi, è quello di Sarah Palin. Sarah Palin è andata fortissimo nelle prime settimane della sua candidatura – ora un po’ meno, che il gioco si sta facendo duro -, e di questo bisogna farsi una ragione, invece che sghignazzare dei suoi inciampi e poi ride bene chi ride ultimo. Sarah Palin è andata fortissimo per le ragioni per cui i repubblicani hanno deciso di investire su di lei, e che lei ha cavalcato da subito: sono una donna, sono una mamma, sono una come voi, vado a fare la spesa, vado a caccia, e come voi non ho un pensiero raffinato o esperto sulle cose del mondo. Ma se mi devo occupare della nuova guerra fredda, beh, da casa mia si vede la Russia, nelle giornate limpide. So di cosa parliamo.
Fa ridere, già. Ma tutto questo non è niente di nuovo. Già di Bush fu esaltata a suo tempo la sua capacità di “parlar chiaro”, e le mille gaffes di incompetenza elencate dai suoi critici in questi anni non gli hanno fatto nemmeno il solletico. La politica americana ha insomma capito che l’antielitismo ha attecchito solidamente nei cuori degli elettori, e ha scelto di seguirne la corrente, proficuamente:
Bush è stato persidente per otto anni, Sarah Palin alla fine porterà più voti di Joe Biden, piaccia o no. Naturalmente è facilissimo trovare esempi simili di successi politici anche da noi: a cominciare dal caso di Di Pietro, del suo popolare modo di esprimersi e del suo trattore (che si suppone essere l’esperienza che gli permette di occuparsi poi di Alitalia). Per proseguire con tutto il repertorio umano campestre e da bar della Lega, con il capitolo a parte del pappagallismo berlusconiano, fino ad arrivare agli imbarazzanti tentativi di imitazione di gente di tutt’altro rango: come quando Fassino andò al programma di Maria De Filippi, “tra la gente”. È vero che la vicinanza al popolo è sempre stata nella tradizione della sinistra italiana, ma una volta si esprimeva in forme più sincere e meno goffe. Come ha potuto questa involuzione culturale e politica insediarsi così radicalmente nelle nostre evolute democrazie? Senza che nessuno vi si opponesse seriamente? Per una tautologica ragione: qualsiasi obiezione all’antielitismo suona elitista, e quindi viene rifiutata e offesa dai suoi stessi destinatari. Vediamo quindi di capire l’elitismo. L’elitismo (elitismo, elitismo, elitismo) è l’idea per cui rispetto a determinate questioni, ruoli, bisogni comuni, esistano delle “élites” di persone esperte, competenti, capaci, che saranno più adeguate ad affrontarli. Le cui opinioni e azioni saranno più importanti e proficue di quelle di altri. L’antielitismo non nega questo, ma ha un approccio diverso: non è la capacità di affrontare determinati problemi a suggerire la scelta di un candidato, ma la fiducia che questo candidato trasmette a chi lo sceglie grazie al suo essergli “familiare”, diciamo. Uno di noi. I commentatori americani in questi giorni hanno fatto spesso l’esempio della scelta di un chirurgo o di un avvocato: li vorremmo seri, ricchi di titoli ed esperienza a costo di essere persone che ci mettono in soggezione, oppure simpatici conversatori, che incontriamo al supermercato o davanti a scuola ad aspettare i bambini, con curriculum meno solidi? Il problema dell’elitismo è che se i criteri per la scelta delle élites non sono questi, ma si trasformano in traffici e favoritismi, in nepotismi, in corporativismi fossili, le cose peggiorano insopportabilmente. Ed è dal rifiuto di questo tipo di elitismo – che tanta parte ha avuto nella storia delle democrazie occidentali e più che mai in quella italiana – che è nato per reazione l’antielitismo attuale. Per fame disperata di fiducia, dopo decenni di inganni e tradimenti. La politica italiana non vanta da tempo buoni esempi di élites capaci e illuminate, capaci di ottenere fiducia sulla base delle proprie qualità rispetto al loro ruolo. E anche per questo, oltre che per l’imbarazzo a pronunciare la parola (elitismo, elitismo, elitismo), che non è finora esistita da noi quasi nessuna reazione elitista. Per demagogia, per paura dell’accusa di elitismo. Le élites italiane non hanno prime pietre da scagliare. E quindi si nascondono, o finiscono per seguire demagogicamente la corrente elitista. E le nostre società si trasformano da democrazie in demagogie.
Fino a che la democrazia era giovane e incompiuta, se ne mediavano le richieste più retrograde con saggi interventi correttivi. Le élites provavano a “fare cultura” in tv, in politica si aveva il fegato di fare scelte illuminate e impopolari, e si pensava fosse una “missione” quella del giornalismo, eccetera. Poi la democrazia e la sua forma mercato hanno prevalso (in altri paesi, i limiti sono stati scritti più solidamente che da noi, e resistono meglio, ma a fatica): e ora si offre quello di cui c’è domanda prevalente, per farsi eleggere, per fare share, per vendere giornali. O anche semplicemente per farsi adulare e apprezzare, bassa demagogia, trionfo delle vanità immediate. Nessuno vuole essere ricordato più. Ammirato subito. Ecco cosa è cambiato, in Italia. Era una democrazia, è diventata rapidamente una demagogia. Di conseguenza, i leader politici eletti non sono più persone “migliori di noi” (e votate per questo), ma uguali a noi (facendosene un vanto), e anche peggiori di noi (per il nostro compiacimento). E se un tempo desiderare il male altrui era sanzionato da un sistema di valori trasmesso dalla cultura nazionale, oggi alcuni dei pensatori e leader di riferimento persino li promuovono, l’egoismo e il desiderio del male altrui. La mediocrità. Questo abbiamo ottenuto in cambio, scegliendo persone “come noi”: il nostro peggio.

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